Lo stigma esiste ancora?

Circa un mese fa è stato l’anniversario dei 37 anni della legge 180, conosciuta come legge Basaglia. Grazie a questa legge le persone affette da disturbi mentali hanno riconquistato dignità di esseri umani. Oggi lavorano, si innamorano e partecipano alla vita sociale come tutti. Ma nonostante tutto ciò lo “stigma”, il pregiudizio nei confronti delle persone affette da tali disturbi, è ancora tanto.

I risultati di un’indagine, fatta dall’INDIGO Research Nework, meritano una riflessione. Sono state intervistate 732 persone di ventisette nazioni, affette da schizofrenia ed è stata fornita loro una scala che misura stigma e discriminazione. L’intervista offre una gamma di esperienze diverse. Da quello che possiamo vedere da tali risultati, percepiamo comportamenti di auto discriminazione o discriminazione anticipata, ovvero fuga dalla vita sociale per evitare rifiuti o esperienze negative. Alcuni dati: in ambito lavorativo il 30% degli intervistati dice di essere stato svantaggiato, mentre il 43% anche negli ambiti relazionali, familiari, amicali, con vicini di casa, relazioni intime. Percentuale molto importante e significativa è la discriminazione all’interno della famiglia che raggiunge il 20%.

Lo stigma quindi,  continua a persistere  ovunque ed è un fenomeno diffuso all’interno della nostra società. Ciò avviene nonostante siano presenti associazioni di contrasto allo stigma e d’integrazione sociale diffuse su territorio nazionale e internazionale. Questo perché lo “stigma” è un termine complesso, che comprende pregiudizio, ignoranza e mancanza di informazione. Soprattutto ci pare principale il problema della conoscenza: tutto quello che non si conosce fa paura. Purtroppo la discriminazione e il pregiudizio nei confronti delle persone che sono affette da sofferenze psichiche sono più frequenti rispetto ad altri tipi di pregiudizi. Come ogni tipo di stigma, derivano da atteggiamenti culturali e la cultura del nostro paese ha fatto dal ‘78 a oggi, anno in cui fu sancita definitivamente la chiusura delle grandi istituzioni manicomiali, molti progressi, ma non ancora abbastanza. Purtroppo viviamo in una società dove si dà più importanza alla forma che alla sostanza, una società che ci impone come essere  secondo stereotipi, impedendo di essere se stessi. Questo in qualsiasi campo, soprattutto nell’ambito della salute mentale, dove molto spesso si  vieni etichettati come “malati” e non si viene considerati come persone. Qualsiasi cosa si faccia  o dica non viene presa in considerazione come una qualsiasi libera opinione o azione, ma in funzione della patologia, come se una persona fosse totalmente vista e identificata  nella sua “malattia. Come se la persona fosse tutta nella sua malattia e non ci fosse altro. Come dire per esempio che un diabetico o un malato di Aids fosse solo questo e nient’altro. Per fortuna non è più così, soprattutto con l’Aids come succedeva negli anni 60-70, la stessa cosa deve succedere nella salute mentale.

Molto spesso i pazienti, anche se adulti, vengono considerati come dei bambini, dalla famiglia stessa o dagli operatori sanitari dei vari CSM (Centri Salute Mentale), dei DSM (Distretti Salute Mentale) e dei centri diurni. In alcune di queste strutture, com’è stato anche detto in occasione di un incontro con tutte le radio della salute mentale (Milano, nel marzo scorso ) dal dottor Peppe Dell’acqua, c’è un atteggiamento discriminatorio da parte degli operatori stessi nei confronti dei pazienti psichiatrici, con uso di parole non adatte, che possono risultare anche offensive. Può capitare, per esempio, che un uomo di cinquanta anni venga chiamato ‘ragazzo’ da un infermiere, che magari ne ha venti meno. In alcune strutture, addirittura, c’è la prassi della richiesta del “consenso informato”, con cui si ritiene necessario informare i familiari conviventi col paziente di iniziative che comportano allontanamento da casa. Anche questa è una forma di stigma: un atteggiamento che considera il paziente come una persona non in grado di badare a se stessa, come un malato o un bambino, e che lo fa sentire sempre più un ‘diverso’.

Attualmente sono ancora tante le forme di “stigma” su cui occorre lavorare. Sicuramente bisogna divulgare il problema, far conoscere, sensibilizzare soprattutto i giovani di oggi, uomini e donne di domani, rivolgendosi in particolar modo al mondo adolescenziale. Far conoscere loro cosa è la legge 180, perché molti ancora non sanno che c’è stato un Basaglia e cosa erano i manicomi. Collaborare il più possibile con le scuole per sensibilizzare i giovani a questa problematica, come molte associazioni e fondazioni stanno facendo da tempo. Aumentando sempre di più forme di collaborazione fra i diversi settori e lavorando così, chissà, magari un giorno non troppo lontano, non ci sarà più alcuna forma di discriminazione.