Le esperienze incidono sulla nostra biologia?

In biologia si è pensato a lungo che i geni predeterminassero non solo i nostri tratti somatici ma anche il nostro comportamento, la personalità e le emozioni. Una teoria che vedeva l’uomo totalmente governato rispetto alla sua biologia. L’idea di fondo era che, conoscendo ogni minimo componente di un auto, si potesse prevedere il suo comportamento, lo stile di guida, la direzione presa, i suoi punti di forza e debolezza. In realtà ci si è accorti che conoscere il libretto d’istruzioni, il nostro corredo genetico, non ci dice molto su chi siamo. O meglio, dice solo una parte.

Nuove scoperte in ambito neuroscientifico hanno mostrato, infatti, come altri fattori risultino fondamentali nel co-determinare la nostra individualità: sono gli stimoli ambientali (interni ed esterni), cui ogni individuo ed organismo è soggetto quotidianamente nel corso della propria vita. La branca della biologia molecolare che studia i cambiamenti nell’attività dei geni, causati non da mutazioni genetiche ma, appunto, dall’ambiente, prende il nome di epigenetica. Importanti, per quello che riguarda il nostro ambito di interesse, ovvero la salute mentale e il benessere, sono i diversi studi e ricerche che hanno iniziato a concentrarsi sul ruolo dell’apprendimento e delle interazioni sociali e sui loro effetti visibili a livello cerebrale.

Uno dei più importanti neuroscienziati ad aver individuato un ponte tra geni e ambiente e la loro stretta interrelazione è il premio Nobel per la medicina Eric R. Kandel. Il suo pensiero, riassunto in un celebre articolo del 1998, è che indubbiamente tutti i nostri processi mentali (pensiero, comportamento, emozioni) rispecchino funzioni cerebrali, ma che tali processi non siano necessariamente predeterminati dai nostri geni, bensì possano subire l’influenza decisiva da parte di fenomeni come l’esperienza e l’apprendimento, capaci di esercitare un’azione retroattiva nel nostro cervello, modificandone l’attività dei geni e andando ad agire sull’interconnessione e la funzionalità neuronale. Egli definisce tale influenza regolazione epigenetica. In poche parole, l’esperienze della nostra vita sono in grado di modificare il nostro cervello e, se significative (come un trauma o un evento ad alto impatto emotivo) o ripetute più e più volte (un’abitudine), avranno la possibilità di depositarsi nelle nostre cellule. Questa visione è stata consolidata da alcune evidenze di come, ad esempio, esperienze precoci di deprivazione sociale abbiano un impatto visibile anche a livello neurale. E’ quanto osservato in uno studio del 2012, condotto presso il Children Hospital di Boston, nel quale sono stati messi a confronto tre gruppi di bambini rumeni: bambini cresciuti in un istituto nel primo gruppo, cresciuti in istituto e successivamente affidati a delle famiglie nel secondo, ed infine bambini che non erano mai stati istituzionalizzati. Dalle risonanze magnetiche si è osservato come l’essere istituzionalizzati, dunque soggetti ad un maggior grado di trascuratezza psicologica e fisica, si accompagnava ad un minore sviluppo a livello cerebrale, in particolare a livello della sostanza grigia e bianca. Inoltre, un aspetto di grande importanza, è dato dal fatto che i bambini passati da un istituto ad una famiglia affidataria presentavano una minore ripercussione negativa sullo sviluppo del cervello, un fenomeno che prende il nome di neuroplasticità e che indica la capacità del sistema nervoso di modificarsi in base agli stimoli dell’ambiente.

Un’altra prova dell’influenza di fattori epigenetici sulla nostra carta d’identità biologica è fornita dagli studi condotti su gemelli omozigoti (stesso corredo genetico) cresciuti in ambienti diversi. Contrariamente alla visione deterministica secondo la quale due individui con lo stesso genoma svilupperanno le stesse caratteristiche somatiche, di personalità e comportamentali, ci sono prove di come, in realtà, da fattori ambientali diversi possano evolversi due individui diametralmente opposti. Inoltre la differenza tra gemelli omozigoti si può riscontrare nella possibilità di sviluppare o meno una patologia, ad esempio il diabete di tipo II (ad insorgenza tardiva), anche nel caso in cui sia riconosciuta una predisposizione genetica. Alcune ricerche riportano, infatti, come a volte sia possibile che la malattia si sviluppi in un solo gemello, facendo presumere l’influenza di fattori epigenetici in entrambi gli individui.

elecLontano dalla pretesa di riassumere in poche righe concetti di biologia estremamente complessi, preme sottolineare che solo recentemente questi studi hanno iniziato a far luce su come determinate esperienze e fattori esterni presentino ripercussione visibili a livello del sistema nervoso e dell’organismo in generale. I concetti e i cambiamenti che abbiamo visto far parte dell’epigenetica possono essere paragonati ad una squadra di rugby, nella quale i singoli giocatori rappresentano i nostri geniNella nostra formazione ideale avremo una percentuale equilibrata di giocatori capaci di sfruttare la loro velocità, giocatori il cui tratto distintivo sarà la forza fisica e giocatori più importanti dal punto di vista tattico. Nella realtà, però, difficilmente la nostra squadra corrisponde a quella desiderata. Magari ci sarebbe piaciuto essere più veloci e invece ci troviamo ad avere una maggiore forza fisica, o vorremmo essere più bravi tatticamente e ci troviamo a dover fare i conti con la nostra impulsività.

L’epigenetica ci mostra come, in realtà, la forza e l’individualità di una squadra non dipende esclusivamente dai singoli giocatori (i geni) ma dal modo in cui essi cooperano in sinergia (le reti neurali) e da come su questi incideranno altri fattori come gli stimoli interni, l’esperienza fatta in partite precedenti, l’apprendimento di nuovi schemi capaci di esaltare le nostre qualità o, purtroppo, l’aver subito traumi ed infortuni capaci di lasciare cicatrici con le quali dovremo fare i conti ogni giorno. Dunque è importante ricordare anche l’altro aspetto della medaglia: se è vero che l’esperienza può modificare il cervello, è anche vero che la direzione di questa riorganizzazione non sempre sarà positiva. Ciò nonostante, evidenze scientifiche dimostrano che la nostra natura è di per sé mutevole e predisposta al cambiamento e che tale natura può fornirci la capacità di assimilare ed elaborare le esperienze della nostra vita, anche quelle negative, come dimostrato dai bambini istituzionalizzati che venivano affidati a famiglie. L’immagine dell’uomo che ne deriva è di un’entità non riducibile alla somma delle sue singole parti, bensì di un complicato intreccio di più fattori che concorrono a determinarne l’individualità. Riprendendo la metafora del rugby una cosa è certa, e cioè che la formazione con la quale abbiamo iniziato non è quella attuale e, soprattutto, quel che siamo ora, le nostre scelte, pensieri ed esperienze, di certo non potranno cambiare il nostro passato, ma potranno contribuire a determinare il nostro futuro.