Nel palazzo della ragione il museo della follia

Anche la follia merita i suoi applausi”, scriveva Alda Merini. E di applausi ne sta raccogliendo molti il Museo della Follia che, dal 19 maggio al 22 novembre, ha trovato casa negli spazi espositivi – appena restaurati dopo il terremoto del 2012 – di Palazzo della Ragione, in piazza Erbe a Mantova, nominata avamposto di Expo.

Dalle nebbie dellapianura alle nebbie della follia: capifila due autori dalla vita travagliata come Antonio Ligabue (sono 190 le opere del pittore di Gualtieri, di cui 12 dipinti e 2 disegni inediti) e Pietro Ghizzardi, con 37 capolavori mai visti prima.

L’iniziativa curata da Vittorio Sgarbi, in qualità di “ambasciatore” di Expo Belle Arti 2015, è realizzata da Giovanni Lettini, Sara Pallavicini, Stefano Morelli e Cesare Inzerillo. Ed è proprio l’artista palermitano ad introdurci alla mostra: una galleria di infermieri e pazienti grotteschi, come marionette immobili, memorie infantili di una Sicilia popolare.

MG_5545Cesare Inzerillo Paziente N. 1 Sezione “Tutti Santi”, Museo della Follia

Poi si accede alla Stanza della Griglia, novanta ritratti di pazienti recuperati dalle cartelle cliniche di ex ospedali psichiatrici, rielaborati ed illuminati al neon. A rievocare le fredde luci dell’istituzione, o un memoriale doloroso, simile a quello dei detenuti nei campi di concentramento. E, ancora più simili ad essi, i reperti anonimi: una fialetta odontalgica, un pacchetto di Alfa, un cucchiaio, una chiave. Un’atmosfera che si respira anche nelle fotografie di Fabrizio Sclocchini, realizzate nell’ospedale psichiatrico abbandonato di Teramo e di Giordano Morganti che, nello svelare la condizione dei malati, li rende nuovamente individui, non più anonimi. L’impotenza. La vergogna. La solitudine di persone incriminate senza colpa da una “folle giustizia”, per il solo caso di essere diversi, carcerati di malattia.

Cesare Inzerillo, Marilena Manzella Ritratti ritrovati nelle cartelle cliniche di alcuni exmanicomiCesare Inzerillo, Marilena Manzella Ritratti ritrovati nelle cartelle cliniche di alcuni ex-manicomi “Stanza della Griglia”, Museo della Follia

«Nulla di strano o di originale, nulla di specifico; tutto di doloroso» come spiega Vittorio Sgarbi. “Prima di Basaglia la liberazione è stata per loro l’arte: gli artisti che hanno potuto lavorare nei manicomi hanno fatto cose bellissime: si sono liberati dalla follia con l’arte.”

E allora ecco ritornare i colori, le speranze, le visioni. I ritratti di Gino Sandri, che per trent’anni fissò su carta gli sguardi e i volti dei suoi compagni di manicomio. O Carlo Zinelli, che dopo dieci anni di isolamento nel manicomio di S. Giacomo Alla Tomba, riesce ad accedere all’atelier di pittura creato dagli scultori Michael Noble, Pino Castagna e dallo psichiatra Mario Marini e dal direttore di allora, Cherubino Trabucchi. Otto ore al giorno a inondare fogli bianchi di colori puri con soggetti che raccontano la storia della sua infanzia nel paese, in uno stile spettrale, con grandi buchi nelle figure solide, a rappresentare l’urlo di occhi e bocche.

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Carlo Zinelli, opera

E poi le ossessioni di Grazia Cucco, i sogni surrealisti di Lorenzo Alessandri. I paesaggi di Gino Rossi che viaggia a Parigi, a Tahiti e che dal ’25 entra in manicomio a Treviso per uscirne morto vent’anni dopo. I personaggi di Raimondo Lorenzetti, con i quali sostituisce l’umanità che preferisce evitare. E infine loro: Antonio Ligabue e Pietro Ghizzardi. Con le loro opere che ci raccontano meglio di ogni parola la loro vita. Il primo che col suo lussureggiante bestiario naif, col suo oscillare tra fiere dagli sguardi intensi e selvaggi e l’idillio campestre, lascia sbigottiti ma anche estasiati da sensazioni positive, intense, umane. Ligabue che entra ed esce dai manicomi, continuando a vagare senza meta sugli argini del Po e ai margini dell’esistenza ma che un giorno entrerà nel cuore della pittura.

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a sinistra autoritratto di Pietro Ghizzardi, a destra autoritratto con mosca di Antonio Ligabue

E Pietro Ghizzardi, “Il Pietrone”, pittore contadino, «talmente solo ed escluso – come ricorda Renzo Dall’Ara -, che non sapeva immaginarsi le donne e per rappresentarne i corpi creava collage di riviste e cartoni pubblicitari. Le femmine avevano il volto di Sofia Loren e le figure, dato che non c’erano soldi per comprare colori, erano dipinte con nerofumo, decotti d’erba e mattoni tritati». Ghizzardi che a 5 anni disegna con un tizzone spento del focolare (“una carbonella”) una Madonnina sul muro davanti al suo letto e viene sgridato per avere imbrattato l’intonaco. Il Ghizzardi raccontato da Zavattini, che alla prima luzzarese dei naifs non trova posto a tavola, resta “in piedi in un angolo con la paura di disturbare, sdentato, il paletò abbottonato male”.

C’è tutto questo nei loro quadri. E c’è tutto questo a Palazzo della Ragione.

Il Museo della Follia non è una storia del disagio mentale. È un archivio di suggestioni, di paure, di prepotenze ma anche di sogni, speranze, riscosse.

Insomma applausi più che meritati.

Aveva ragione Alda, che la sapeva lunga, “la follia è solo una maggiore acutezza dei sensi”.