A 10 anni dalla morte di Bergman e Antonioni: ricordando i registi dell’incomunicabilità

Il 30 luglio 2007 ha visto andarsene due grandi autori del cinema italiano e svedese, due figure di enorme impatto all’interno del panorama del cinema d’autore europeo. I loro film sono apprezzati e presi a modello dai registi di tutto il mondo, a loro contemporanei e futuri. Stiamo parlando di Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman, l’uno nato a Ferrara nel 1912, l’altro a Uppsala nel 1918. Antonioni e Bergman non sono accomunati solo dalla data di morte che quest’anno, al decennale della loro scomparsa, diventa un’occasione per rendere loro omaggio.

I due autori sono infatti considerati dei veri e propri maestri del cinema psicologico ed esistenziale. Ingmar Bergman è infatti ritenuto il maestro del dramma psicoanalitico e nei suoi film troviamo spesso complesse dinamiche familiari, molti spunti derivano proprio dalla sua infanzia di “piccolo artista incompreso”. Nella sua autobiografia Lanterna magica Bergman racconta tutta la sua vita, dagli aneddoti e le paure dell’infanzia, l’educazione rigida e le severe punizioni del padre pastore luterano, fino a raccontare la nascita e la realizzazione dei suoi film, sempre in chiave molto diaristica, e alle relazioni sentimentali ad esempio con l’attrice Liv Ullmann. Da parte sua, il nostro compatriota filma le difficoltà comunicative alla base delle relazioni umane e sentimentali, il sentimento di alienazione rispetto alla società moderna. Di lui si ricorda soprattutto la cosiddetta tetralogia dell’incomunicabilità composta dai seguenti titoli: L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962), Deserto rosso (1964). In questi film, ma già anni prima nel suo lungometraggio d’esordio Cronaca di un amore (1950), Antonioni narra la crisi della borghesia filmando le vite vuote e gli animi inquieti dei suoi personaggi.

L'eclisse
Alain Delon e Monica Vitti ne “L’eclisse” di Antonioni

Come Bergman anche Antonioni serba molta attenzione alle figure femminili. A questo riguardo il regista svedese filma spesso la sofferenza fisica e psicologica tramite le sue manifestazioni estreme, come i deliri allucinatori ne L’immagine allo specchio (1972), la sofferenza atroce di una moribonda in Sussurri e grida (1972), il mutismo psicologico che colpisce improvvisamente un’attrice di teatro in Persona (1966) e il rapporto conflittuale e competitivo tra madre e figlia in Sinfonia d’autunno (1978). Spesso le location dei film di Bergman tendono ad isolare i personaggi dalla società creando una sorta di microcosmo al di fuori di tutto il resto dove vengono confinate le vite tormentate dei personaggi. Si pensi alla desolata isola di Faro in Persona e alle ville isolate in campagna, ad esempio nei sopracitati Sussurri e grida e Sinfonia d’autunno. È lo spettatore ad immergersi in questo mondo intimo, privato, silenzioso, un mondo interiore e interno, come la mente è interna al corpo, e fatto di solitudini dolorose e incomprese.

Sinfonia d'autunno
Ingrid Bergman e Liv Ullmann in “Sinfonia d’autunno” di Bergman

I film di Antonioni non sono da meno. Il regista segue i suoi personaggi tra silenzi interni ed esterni, nelle abitazioni e nei luoghi desolati, come la bellissima passeggiata notturna di Monica Vitti all’Eur (ne L’eclisse), quartiere romano dov’è ambientato gran parte del film e che viene visto sotto un’ottica nuova e singolare. Ai silenzi delle case e degli esterni notturni fanno da contrasto i luoghi chiassosi della vita diurna romana, come la Borsa, dove urlano sia i telefoni che le persone, si sente tanto baccano ma non ci si ascolta, non ci si comprende. Ed è proprio questo il punto, Bergman esclude i suoi personaggi dalla società in un silenzio amplificato da suoni specifici come le lancette degli orologi, i cinguettii d’uccelli, rintocchi di campane e acque torrenziali che non fanno altro che rimbalzare lo spettatore nelle solitudini dei personaggi. Antonioni invece punta più sull’effetto di straniamento ed alienazione, inserendo le esistenze vuote, inquiete e vaganti dei personaggi (Monica Vitti ne è l’attrice-emblema) all’interno di una società che non li comprende e per contrasto li rende ancor più soli.

L'eclisse
Monica Vitti e il quartiere Eur ne “L’eclisse”

Da una parte gli spazi vuoti risultano la proiezione esterna dell’interiorità dei personaggi, dall’altra il tanto rumore di certi ambienti affollati e caotici ne simboleggiano proprio il disorientamento e il caos interiore. Oltre alle sequenze ambientate alla Borsa ne L’eclisse, si pensi soprattutto a Deserto rosso che si apre fra i rumori assordanti di una fabbrica, simbolo di una chiassosa modernità priva di una vera identità, dove lo spettatore è l’unico a sentire il suono dei passi di Monica Vitti che, per tutto il film cammina, viaggia e fugge di fatto da una realtà che non la soddisfa e da una società cui si sente estranea. Antonioni, nelle sue pellicole, ci mostra chiaramente come ogni forma di relazione tra l’alienato e l’altro si riveli un fallimento. L’ultima spiaggia sembra essere il vero amore, che i personaggi cercano al di fuori del fallimentare meccanismo di coppia, intraprendendo una frequentazione parallela con un amante. Alla fine, però, anche quest’ultima si rivela una via di fuga solo apparente e disastrosa poiché lo stesso amante si scopre una sorta di doppio del personaggio protagonista, inadeguato al mondo, emarginato, e ancora una volta incompreso.

Foto in evidenza tratta da “Persona” di Bergman