Anna Maria De Angelis (ARESAM): il “dopo di noi” è una casa e un lavoro

Anna Maria De Angelis, è presidente dell’ARESAM ONLUS, l’Associazione Regionale per la Salute Mentale, attiva fin dagli ultimi anni ’80, è composta prevalentemente da familiari di persone con sofferenza psichica e svolge le sue attività nel settore della prevenzione e cura del disagio psichico, fin dall’età infantile, dell’assistenza socio‐sanitaria e della tutela dei diritti delle persone con disturbo mentale e dei loro familiari.
L’ARESAM, svolge una intensa attività di rappresentanza e di contributo per la soluzione dei bisogni delle persone con sofferenza mentale e delle loro famiglie nella rete dei servizi territoriali delle ASL e nel sistema di consulte per la salute mentale del Lazio. Pratica costante dell’Associazione è l’interlocuzione diretta con le Istituzioni attraverso un sistema di sinergie tra familiari, operatori, amministrazioni locali e società civile, in favore di una sempre migliore assistenza alla salute mentale sui territori.
Scopo primario dell’Aresam e dei suoi associati è di promuovere la realizzazione di un sistema integrato di assistenza ai portatori di disturbo mentale per superare ogni forma di esclusione ed emarginazione e reinserirsi nella vita sociale e lavorativa. In questo contesto, il focus dell’associazione è sui problemi relativi all’inserimento lavorativo, all’abitare, al tempo libero e alla qualità della vita in genere, che sono parte integrante del disagio e della relativa cura. L’ARESAM intende realizzare praticamente un sistema di tutela della salute mentale fondato sul rispetto della dignità e sui diritti della persona e finalizzato alla presa in carico globale, alla cura, alla riabilitazione e all’inclusione sociale delle persone con sofferenza psichica, facendo sì che si applichi in pieno la legislazione vigente in merito alla salute mentale, che è tra le più avanzate a livello mondiale.

Anna Maria, qual è secondo te il modo migliore di ridare l’autonomia alle persone che soffrono disagi psichiatrici?

Ogni volta che parliamo di salute mentale, per noi dell’Aresam la cosa fondamentale è l’inserimento lavorativo, cioè il “fare”. Non esiste nessun recupero o presa in carico se non si abbina alla cura l’obiettivo dell’uscita. E per una vera connotazione sociale di recupero l’obiettivo non può che essere il lavoro e quindi una certa autonomia della persona.

Quindi a proposito di inclusione sociale: cosa manca e cosa funziona ma andrebbe ampliato?

I punti cardine dell’inclusione sociale, quelli che preoccupano le famiglie sono l’abitare, il lavoro e l’autonomia in generale. Sono i punti cardine che dovrebbero preoccupare anche gli operatori di salute mentale, che però troppo spesso si limitano all’aspetto medico. L’inclusione sociale è troppe volte considerata secondaria. Quando una persona viene presa in carico da un DSM, alla cura, all’aspetto medico e farmacologico tout court, agli incontri che si possono attuare, dovrebbe essere abbinato un discorso per quello che sarà l’uscita, intendendo il percorso di recupero e quindi il reinserimento nella comunità.

Una delle preoccupazioni principali delle famiglie è il discorso sul “dopo di noi”, un’espressione ben chiara nelle famiglie e nel senso comune, cioè cosa succederà quando quando non ci saremo più. Ma in realtà il “dopo di noi” è il presente, è cioè quello che si costruisce adesso. Perché, diversamente da una disabilità fisica, le persone che hanno una disabilità mentale si possono recuperare. E in questo processo di recupero e guarigione l’abitare è fondamentale tanto quanto il lavoro.

Per quanto riguarda l’abitare ci sono diverse opzioni: case famiglie, civili residenze, ci sono familiari costituiti in associazioni per affittare appartamenti dove inserire le persone con disturbi e magari seguite da cooperative, c’è il sostegno all’abitare. Naturalmente ci sono anche le protezioni nell’abitare, persone formate che seguono gli utenti h24, h12 a seconda del bisogno e dell’evoluzione del disturbo mentale. Dal punto di vista del lavoro è tutt’altro discorso. I DSM si sono, ad oggi, molto più interessati all’abitare che all’inserimento lavorativo. È ovviamente più difficile trovare un lavoro: dipende dalle attitudini indviduali, dalle condizioni del lavoro oggi, dalle dinamiche della legge 68/99 in ambito di inserimento delle categorie protette. Insomma, è piuttosto complesso. Le coop sociali integrate, sarebbero una buona risorsa ma purtroppo non sono molte e vivono parecchie difficoltà: Nel caso del Lazio, ad esempio, la centrale d’acquisti che la Regione ha attivato da diversi anni, centralizzando le gare d’appalto, ha reso difficoltoso per queste coop, che spesso sono piuttosto piccole, riuscire a vincere. In questo modo rimangono ai margini. Invece crediamo che si dovrebbero garantire commesse sotto soglia alle cooperative sociali integrate, perché sono una delle poche formule che garantisce l’inserimento, i tirocini, e un’effettiva tutela delle persone con disagio mentale.

Quali sono le problematiche principali per i familiari?

Per una famiglia il punto critico è quando si rende conto che non sarà qualcosa che finisce presto, ma che avrà un periodo più lungo di cura e di restituzione.

Il primo momento, è quello che “da fuori” potrebbe sembrare il più critico, come ad esempio quando arriva una crisi improvvisamente, magari nella tarda adolescenza. È un vero e proprio “tsunami”, ci si chiede “che cosa mi trovo davanti?” Ci si informa, si prova di tutto per trovare una soluzione. Ma quando si vede che passa il tempo e c’è una ricaduta, è allora che comincia la fase dell’accettazione, che è quella che ritengo, appunto, più impegnativa. Credo sia senz’altro il momento della consapevolezza e dell’aiuto, della collaborazione che la famiglia puo’ dare ma anche del dolore più profondo. Un genitore vorrebbe che i figli tornassero come erano prima, un familiare vorrebbe che un congiunto tornasse quello che conosceva prima. Ma questo richiede tempo e fatica, ed è qui che bisogna aiutare le famiglie. È il momento più critico proprio perchè si capisce che sarà lungo. La paura del dopo di noi subentra proprio qui. E invece, ripeto, il dopo è il presente. Bisogna confrontarsi con gli operatori e le istituzioni perchè guarire si può. Magari rimarranno le cicatrici, sì. Speriamo che non si riaprano, ci staremo più attenti.

Oltre all’inclusione sociale, quali sono allora le pratiche che possono aiutare le famiglie?

Principalmente combattere lo stigma. Quando sei fuori sei un “folle” ma dentro a un dipartimento diventi un malato, devono applicarti una razionalità necessaria e da quel momento ti vergogni, perché sai che fuori c’è lo stigma. Quest’anno all’Aresam abbiamo realizzato un progetto che si chiama “Cuore oltre l’ostacolo”: si trattava di dibatti, eventi, incontri culturali, musica, abbiamo voluto mischiare un po’ di tutto. E quando abbiamo fatto queste cose si è dimostrato che stando tutti insieme le differenze e i pregiudizi diminuiscono fino a scomparire. È il processo culturale che si deve attuare. E non bisogna aver paura del linguaggio. Dobbiamo raccontarci, dire le cose come stanno, anche se di sicuro è molto difficile, soprattutto quando non c’è una cultura diffusa.