Artisti e terapeuti: quando l’arte è al centro della cura

Il 6 agosto 1945 Sadako Sasaki ha due anni e mezzo. Si trova a casa, a circa due chilometri da Hiroshima. Non sono abbastanza per sfuggire alle radiazioni di Little Boy, la prima atomica della storia. Sadako cresce forte. Ama la corsa. Poi a 11 anni, durante un allenamento, arrivano improvvise le vertigini. Cade a terra. Ha una grave forma di leucemia. La sua migliore amica, Chizuko, quando la va a trovare le racconta un’antica leggenda: «chiunque riesca a piegare mille gru, vedrà esauditi i desideri del proprio cuore». La piccola Sadako inizia a creare gli origami a forma di gru, uccello simbolo di lunga vita, nella speranza di poter tornare presto a correre.

Nel 2006 le gru di carta atterrano anche in Italia. Per la precisione a Carrara, in un reparto di oncologia dell’ospedale. È uno dei primi progetti di “terapeutica artistica”, un’iniziativa di Tiziana Tacconi dell’Accademia di Belle Arti di Brera di Milano. Nelle sale d’attesa, nei reparti dove si fa la chemio, familiari, operatori e pazienti iniziano a piegare la carta, a creare i mille origami. Diventa un lavoro condiviso e anche una scusa per dialogare. Poi a qualcuno viene un’idea: con della carta colorata inizia a fare delle uova. La speranza che qualcosa possa nascere. Ad alcune gru, come piccole cicogne, spuntano sacchettini di tela pieni di ovetti rossi.

A spiegare cos’è la “terapeutica artistica” è Martina Basconi, laureanda all’Accademia di Brera e che ha appena iniziato un progetto entusiasmante. «Per darne una definizione potremmo partire dalla differenza con la più nota “arte-terapia”. La differenza principale è la tipologia di formazione. L’arte-terapia si basa su scuole cui accedono persone con una formazione medica, educatori, quindi senza preparazione artistica. Si formano persone in ambito relazionale psicologico: l’arte non è realmente al centro, è uno strumento che viene utilizzato al fine di psicoanalizzare un utente. Si guarda al processo. Ovviamente è una tecnica interessante e con delle basi di cui teniamo conto anche noi. Ma la differenza è che la “terapeutica artistica” invece parte dall’arte. Oltre al processo guarda all’opera finale, che può e dovrebbe essere di alta qualità. Noi partiamo dal fare. Un musico-terapeuta avrebbe credibilità se non sapesse suonare? Se avesse fatto solo un corso di tre mesi di flauto? Così funziona anche con la “terapeutica artistica”. Si dà grande importanza all’opera e contemporaneamente assume valore la persona che l’ha creata. In che senso questo è terapeutico? L’arte è terapeutica: porta ad esprimere una parte di sé attraverso un’altra materia. L’argilla, lo stucco, il feltro, il colore: qualsiasi strumento e materiale può essere adatto. L’obiettivo è raggiungere consapevolezza di sé attraverso un mezzo che ci aiuta a portarla fuori. La consapevolezza la raggiungiamo spesso attraverso l’uso di una metafora. La più comprensibile per me è quella di un dialogo d’amore: siamo persone e siamo fatte di materia. Per dialogare in una relazione amorosa ho bisogno di conoscere la tua materia e allo stesso tempo conosco la mia. Un figlio è come l’opera che nasce da un dialogo amoroso, da quel piacere che tu hai di scoprire l’altro. Conoscendo l’altro conosci te stesso e in quel dialogo si crea un’opera».

Il progetto che Martina sta realizzando ha trovato casa all’Ospedale Macedonio Melloni, una struttura al femminile in zona Risorgimento a Milano. Il progetto è rivolto alle donne che si trovano in due luoghi distinti della struttura: la sala d’attesa di Diagnosi Prenatali e il Centro psiche Donna. Il primo è un esempio di “non-luogo”, una zona di passaggio o permanenza forzata, anonimo e a volte ansiogeno. «Un limbo di tempo morto dove ci si racchiude troppo spesso in se stessi, in minuti interminabili di silenzio che celano inevitabilmente la preoccupazione». Parallelamente nel Centro Psiche Donna c’è la situazione, decisamente più complessa, di alcune madri con depressioni post-parto. «Questi due luoghi e le donne che li vivranno dialogheranno per mezzo dei lavori da loro prodotti al fine di realizzare un’unica opera, un ponte immaginario».
Nel Centro Psiche Donna si realizzeranno delle tessere di adigraf o linoleum incise. Saranno la matrice. Bisognerà lasciare traccia di sé attraverso un’iscrizione e poi impressionare, col colore, l’immagine scavata su un pezzo di tela. «La stampa ha sempre qualche imprevisto: il negativo e positivo dell’incisione sono invertiti. Mi sembra una buona metafora: la mamma è la matrice, il bambino la stampa: ma non sai mai come viene. Il “bambino immaginario” viene idealizzato nella propria mente. Non è detto che il figlio vero sia poi come te l’eri sognato. Vorrei che servisse a metabolizzare, ad accettare l’imprevisto quando si crea qualcosa». Poi le stampe verranno portate nella sala d’attesa e qui le altre donne riempiranno gli spazi “bianchi” con il ricamo, antica arte femminile, facile, veloce, che non occupa spazio e non sporca. «Ma che è anche un momento di tranquillità, di preghiera un atto che costruisce, nel gesto stesso, un equilibrio tra dentro e fuori. Ognuna può starci il tempo che vuole. Alla fine con tutte le tessere lavorate creeremo un’installazione unica col metodo dell’opera condivisa: ognuno fa una parte e poi le si unisce. Dovrà essere come un coro, armonizzato allo stesso ritmo, alla stessa tonalità. Finché tutti non saranno d’accordo non sarà completata. Decideremo poi insieme di che opera si tratta. Io ho delle idee ma dipenderà da loro».

La terapeutica artistica insomma può essere praticabile in diversi contesti. L’unica difficoltà è trovare operatori disposti ad accoglierne l’idea. Ma ci sono state esperienze molto proficue. Nei centri di salute mentale sono state create opere condivise che hanno vinto anche premi prestigiosi. Nelle carceri, dove alcune persone si sono poi iscritte all’accademia o hanno continuato a produrre con successo. «Una delle esperienze più dure è stata realizzata in un reparto ospedaliero tra i più difficili: le camere sterili di ematologia. Lì i pazienti non potevano proprio toccare nessuna materia ed erano separati dal mondo esterno da una grande vetrata. Per via telefonica parlavano con l’equipe che strappava pezzi di carta colorata, seguendo precisamente le loro indicazioni. Sul vetro del reparto è stato così composto un collage per ogni paziente. Un lavoro estenuante e lunghissimo. Alla fine le immagini e le parole usate per descriverle sono state trasportate dall’equipe in un dipinto parietale sul muro sopra la vetrata delle camere sterili. Ma come unire i pezzi? Creando una storia, una sorta di racconto dipinto, con le parole dei pazienti a fare da legame. Pensa che emozione quando alcuni sono usciti dal reparto, hanno alzato lo sguardo e hanno visto per la prima volta il loro dipinto!»

Foto: www.terapeuticartistica.it