GIOCO ERGO SUM: quando il gioco entra nei consumi

Lo scorso venerdì 18 novembre, presso il Teatro Argentina di Roma, si è svolta la decima edizione del “Premio Vincenzo Dona, voce dei consumatori”, una manifestazione rivolta, appunto, ai consumi. Siamo stati attirati dall’evento per via del tema affrontato, che quest’anno è stato incentrato sul “consumo ludico”, con particolare riferimento alla cosiddetta “gamification”, e alle testimonianze delle imprese che stimolano l’ingaggio del consumatore (o, come viene chiamato, consum-attore) in modo “giocoso-partecipativo”. Non a caso il titolo dell’evento è stato “Gioco Ergo Sum”.

Ma che cosa intendiamo con “gamification”?

Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare un piccolo sforzo ed accettare l’idea che le novità tecnologiche, qualsiasi esse siano, vengono inserite nel contesto sociale attraverso i giochi. Tutti ricorderanno il vecchio “solitario”, quello a sfondo verde, che il sistema Windows proponeva dalla prima metà degli anni ’90, e tutti ricorderanno di averci giocato almeno una volta. Il “solitario”, non a caso, aveva uno scopo “educativo” legato alla padronanza del mouse: clicca e trascina, questo insegnava il “solitario”, e lo insegnava con un gioco. I primi telefoni cellulari, quelli della Nokia ad esempio, si presentavano con “Snake”, un gioco volto a far apprendere all’utente come utilizzare le “frecce” del proprio telefonino. Ma anche i più recenti smartphone e tablet hanno bussato alle nostre porte proponendo giochi. Possiamo dunque affermare con certezza che tutto si fa gioco, e che la “gamification” sia proprio questo.

Durante l’evento sono intervenuti rappresentanti di molte ditte e compagnie famose, da quelle dell’energia elettrica a quelle degli operatori telefonici, da quelli di siti social a quelli di famose catene di negozi. Ci è parso che tutti, bene o male, abbiano finito per concentrarsi sulla dimensione giocosa come volta a qualcosa di “educativo”. Ad esempio un rappresentante di un’azienda elettrica ha tentato di far passare per gioco (e non per ossessione) segnarsi il consumo di energia elettrica per compararlo al consumo di energia elettrica del vicino di casa. Disse: “avrò consumato più o meno del mio vicino? Questo è come se fosse un gioco!”. È come se fosse un gioco, ma di certo non è un gioco. Viene poi fatto l’esempio di una compagnia automobilistica che avrebbe impiantato nei suoi veicoli un sensore per misurare la media della velocità annuale: se tale media fosse rimasta sotto una certa soglia, ci sarebbe stato un premio per il proprietario dell’auto (premio legato magari all’assicurazione oppure alla revisione dell’auto stessa). Anche questo veniva presentato come se fosse un gioco. Il conducente limita la propria velocità, come se stesse giocando. Eppure, le conseguenze di questi giochi (quello del consumo elettrico e quello della velocità) sono piuttosto evidenti: se faccio bene il mio compito ho un’agevolazione, ossia un ritorno economico, a fine anno. Ma ho anche una “fidelizzazione” con l’azienda, che crea automaticamente tra gli utenti una specie di competizione. Un po’ come accade con la raccolta punti dei supermercati, forse il gioco più vecchio messo a punto dalle aziende.

La “gamification”, allora, per essere davvero tale deve dare un’opportunità anche all’utente, non può rimanere fine a se stessa. Detto in altri termini, accetto il gioco se so di avere delle opportunità a me favorevoli in futuro. Altrimenti non gioco. Eppure, se da una parte la “gamification” è legata al concetto che tutto si fa gioco, dall’altra fa finta di non capire che se tutto si fa gioco allora nulla si fa più gioco (e quest’ultima cosa durante la manifestazione non è venuta fuori). O, per lo meno, ciò che viene proposto come un gioco in tal senso non è vero e proprio gioco. Pensiamo ad un altro esempio, come quello di Farmville, diabolico gioco social lanciato da Facebook. Farmville è un gioco infinito, va avanti anche quando non siamo collegati. Dunque siamo portati a tornarci sopra, perché più gli stiamo dietro e più abbiamo dei bonus. Esattamente come il consumo di energia elettrica e come il calcolo della nostra velocità media: se ci sto dietro allora posso stare attento ed avere bonus in futuro.

Questo, però, non significa giocare. Il gioco, al contrario, è un’attività libera, ed è soprattutto una scelta: scelgo di giocare perché voglio giocare, non perché sono costretto a farlo al fine di avere dei vantaggi in futuro. Nel gioco (quello vero, quello con la “G” maiuscola) entro ed esco quando voglio, e so che se lo interrompo posso poi ricominciare da capo senza alcun tipo di conseguenza. Se interrompo un gioco ho interrotto un’attività libera. Se invece interrompo il gioco di un consumo ho interrotto qualcosa di più, le cui conseguenze potrebbero farsi sentire dopo qualche tempo.

E allora vorremmo invitare tutti a stare attenti se dovessimo incontrare di nuovo la parola “gioco” in futuro, e a ricordarci magari delle parole di Johan Huizinga, il padre della moderna riflessione sul ludico, il quale lo definisce come “un’azione libera: conscia di non essere presa sul serio e situata al di fuori della vita consueta, che nondimeno può impossessarsi totalmente del giocatore; azione a cui in sé non è congiunto un interesse materiale” (Homo Ludens, Einaudi, 1973).

In conclusione, la manifestazione del “Premio Dona 2016” ha voluto lanciare il messaggio che questa è l’era del consumatore che gioca, del consumatore che vuole giocare, consapevole allo stesso tempo di far parte di un meccanismo perverso che usa i connotati tipici del gioco per una qualche finalità di business (inteso non come azzardo, ricordato giustamente come una “piaga” della nostra società, ma come vantaggio per chi gioca). La riflessione e il messaggio sono senz’altro veri, ma se tutto ciò sia giusto o sbagliato ce lo dirà solo il tempo.

Matteo Roberti