La disumanizzazione delle diversità

Furono uomini e donne con una semplice diversità. Diversità che bastò a introdurli in situazioni di disumanità. Ecco, diversità e disumanità, sono sempre state, inesorabilmente, due parole accomunate dalla logica della violenza e della mancanza di rispetto verso l’altro. Sono due parole che riguardano un po tutti e nel periodo dell’istituzione dei manicomi, in Italia, sono stati gli aspetti cardine che hanno colorato di nero le vite dei “diversi” come gli omosessuali e i pazienti psichiatrici che furono. Nel nostro paese, sin dall’800 si possono trovare stralci di storie sulla concezione di omosessualità intesa come malattia mentale. 

Disturbi  come la depressione, la catatonia, l’alcolismo furono la diretta conseguenza della repressione culturale e legislativa dell’ omosessualità. E i casi di vera e propria costrizione nei manicomi da parte di parenti e genitori degli omosessuali erano frequenti tra l’Ottocento e il Novecento. La cultura di quel periodo fù completamente oppressiva nei confronti di ogni forma di omosessualità anche nel ‘900 inoltrato. 

Basti pensare che soltanto nel 1990, L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) eliminò l’omosessualità dal manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. 

Un esempio della realtà dell’epoca, è introdotto nel libro di Giuseppe Riefolo e di Tommaso Losavio, Tra ‘800 e ‘900. La psichiatria italiana attraverso i documenti clinici del S. Maria della Pietà, dove raccontano la storia di Giovanni Battista, un ragazzo di 16 anni ricoverato nel manicomio di Santa Maria della Pietà dal padre. Fù salvato, dopo cinque anni, ormai raggiunta la maggiore età (21) dall’intervento della matrigna: 

 

«In una cartella del 1939 una storia esemplare. Per 5 anni in due successivi ricoveri è al S. Maria della Pietà un ragazzo che all’ammissione ha solo 16 anni: “Psicodegenerato, omosessuale (passivo)…”. Inviato dal Policlinico viene ricoverato al padiglione XII, dei Pericolosi e poi al XVIII, dei Criminali. Si leggono le lettere che la matrigna invia al direttore perché, almeno, dal XVIII padiglione sia trasferito al XII: “Chiedo… quale sia la degenerazione psichica di cui è stato affetto e per la quale il padre lo abbia rinchiuso. La prego di essere chiaro e franco nel parlare. …Se Ella potesse veramente occuparsi di lui per il trasferimento dal 18° padiglione al 12°, cioè al Suo, dove egli si trovava tanto bene, e da dove è stato passato al 18° non so per quali ragioni. Egli non è un criminale, quindi non può vivere tra condannati, non Le pare?…“. 

La cartella si chiude con una nota dal padiglione XII: “Il ricoverato è rimasto in questo XII pad. per circa due anni consecutivi. Andò al XVIII perché spontaneamente si offerse. Nella sua lunga degenza non ha dato luogo a rilievi dal punto di vista sessuale. Che egli sia stato pederasta passivo nell’adolescenza è indubbio, ma nulla è stato constatato. Egli anzi si è abitualmente dedicato al lavoro. Egli è certamente abulico, quindi di poca fermezza nei suoi propositi: però dopo una così lunga degenza, con un comportamento complessivamente lodevole, considerata anche l’età raggiunta (21 anni compiuti), considerato altresì che non sarebbe umano rinunciare ad un secondo tentativo di riammetterlo nella società, considerato inoltre che egli non presenta mai pericolosità…. nel senso voluto dalla legge, se ne dispone la dimissione per non ricorrere più gli estremi per l’internamento» 

 

La cartella clinica è datata otto d’ottobre di 1939  e il caso di Giovanni Battista potrebbe considerarsi una storia a buon fine. 

Dal libro di Mario De Paoli, Contributo allo studio della omosessualità passiva. Quaderni di psichiatria, è interessante portare un esempio di ribellione di un ragazzo diciannovenne rinchiuso in manicomio nel 1925 per le sue tendenze omosessuali e per un episodio di aggressione nei confronti del padre, avvenuto per una pretesa di denaro che gli sarebbero serviti per andarsene via di casa. 

 

  «“Parla, senza accenno a vergogna, dei furti, delle falsificazioni delle firme, dei suoi amanti di Milano (ne ricorda qualcuno come ottimo pagatore, qualcun altro verso il quale si sentiva trasportato da vero amore), e delle sozze pratiche cui si sottoponeva; cerca di scusare le fughe da casa ed i furti allegando presunti maltrattamenti, ristrettezze finanziarie cui lo obbligavano i genitori, ma soprattutto le mette in rapporto coll’insistente stimolo di dar sfogo alla sua pervertita sessualità. Insiste nel dirci che lo stimolo non è continuo, ma accessualmente avvertito ed in ispecie quando si fa ipereccitabile. Questa la sintomatologia clinica presentata nei primi tempi di degenza. Ora (alla distanza di circa tre mesi) appare moralmente migliorato, non parla più dei suoi vizi, anzi cerca di cambiar discorso se qualcuno gliene parla; l’affettività è maggiormente sentita, tanto che si intrattiene con molta cordialità col padre e col fratello. Durante la degenza non ha mai cercato di sfogare il suo istinto”» 

 

Ciò che è più lampante è la definizione dei suoi comportamenti e l’analisi che si fa del ragazzo dopo i primi tre mesi di internamento. Ciò rende chiaro come la cultura dell’epoca opprimesse e schiacciasse l’aspetto più importante e diversificante delle persone omosessuali: l’omosessualità. 

Tra i primi tentativi di depatologizzazione dell’omosessualità c’è quello del 1972, avvenuto negli USA, in cui uno psichiatra mascherato si presenta al congresso nazionale dell’APA sotto il nome di “Dottor Anonymous”, dichiarandosi omosessuale. Così dott. Anonymous denunciò la condizione di psichiatri e medici in difficoltà ad accettare l’omosessualità come patologia, pronunciando un celebre discorso. 

L’effetto della protesta di dott. Anonymous portò ad un riconoscimento definitivo da parte dell’OMS della depatologizzazione dell’omosessualità, più di vent’anni dopo, nel 1993. Successivamente al riconoscimento dell’OMS, si sono compiuti studi sulle persone omosessuali e transessuali, dandone una definizione di gruppi sociali e non più di pazienti psichiatrici. 

 

Foto di (il meo) – Flickr – CC license