Il rapporto stretto tra casa e salute mentale
«La casa si può anche definire “a capa” (“la testa” in napoletano). Per un periodo della mia vita queste due parole risuonavano senza distinguersi nella mia testa. Erano due parole fuse quasi completamente. Questo fenomeno mentale mi ha fatto capire che avere la casa in molti casi vuol dire avere la testa, la mente sana, la lucidità mentale poiché la casa è una risorsa o comunque un elemento che dà sicurezza e certezze, comodità e riparo. Da allora capii, o meglio, iniziai a comprendere molto più consapevolmente l’importanza di una casa in mattoni e cemento (possibilmente). E iniziai a capire che senza casa si può soltanto vagabondare senza meta, nel vero senso della parola.
La casa è “a capa”, c’è poco da fare.»
Partiamo da queste riflessioni di Andrea per presentarvi il tema in copertina di questo mese. «La casa non è dove vivi, ma dove ti capiscono», ha scritto il poeta Christian Morgenstern, e questo mese abbiamo voluto approfondire lo stretto rapporto che intercorre tra la casa che abitiamo e la nostra salute mentale.
«Quando si pensa a “casa” non si pensa solo a un edificio, si pensa a un contesto vivente a cui sentiamo di appartenere, un porto a cui siamo ancorati da una questione identitaria, un posto del cuore: si può cambiare casa, ma “casa” non cambia.» (Tratto da: https://unaparolaalgiorno.it/significato/casa)
Non è un caso, se la parola “abitare” ha la stessa radice etimologica di habitus e habitat, rimandando a concetti, come quelli di “abitudine”, “aspetto” e “stare”, fondamentali nella costruzione dell’identità di una persona e di un gruppo sociale.
«Abitare significa quindi assumere abitudini e abitare un certo luogo (un habitat appunto) comporta la produzione o l’adozione di abitudini locali. Le abitudini si formano dalle nostre interazioni con l’ambiente che ci circonda, mediante loro noi abitiamo il mondo. Si innesca così uno stretto legame tra luoghi, corpi e costumi la cui intersezione dà vita all’identità stessa.» (Tratto da: https://www.ehabitat.it/2014/03/18/habitat-e-habitus-una-definizione-antropologica/).
Per tali motivi, la casa assume un ruolo centrale nel percorso di cura di una persona che vive un problema di salute sia fisico che mentale. Le persone che perdono, per un problema di salute, la propria autonomia, spesso rimangono confinate in casa, isolate dalla comunità e dal territorio di appartenenza. In queste esistenze, la casa può divenire sinonimo di reclusione e solitudine, per famiglie e caregiver lasciati soli nel reggere il carico assistenziale di un proprio caro. A tal proposito abbiamo voluto conoscere l’esperienza di un operatore domiciliare, che lavora nel mondo della disabilità, nella consapevolezza che questa tipologia di interventi, se opportunamente valorizzati e sostenuti, sono un punto di partenza fondamentale per ricostruire una rete attorno alle persone che faticano ad avere una vita indipendente. A maggior ragione, nell’ambito della salute mentale, la casa diviene un aspetto centrale per chi vive una situazione psicopatologica complessa.
Non semplicemente un luogo dove stare, ma un luogo dove sviluppare nuove abitudini e sperimentare vissuti alla base di una nuova identità personale. A tal proposito, scrive Maria Anna, «la casa, intesa come luogo sicuro, dovrebbe essere un posto sano in cui crescere e vivere sereni. Qualora questa sicurezza venisse a mancare, ricostruire un ambiente in cui non ci sono preoccupazioni, è un aspetto molto importante per una riabilitazione personale (psichiatrica, per esempio). L’importanza di ritrovare un’autonomia che magari si era persa è fondamentale per il recupero mentale. La soluzione delle case supportate può essere l’ideale per chi si trova in una situazione non così grave da ricorrere a una clinica ma nemmeno così facile da poter restare a casa propria durante il percorso di cura.»
Per tale ragione vi riportiamo le riflessioni emerse durante il seminario online Sostegno all’abitare: dalla struttura residenziale a casa propria. Esperienze, ostacoli, soluzioni per il diritto alla vita indipendente, organizzato da Forum Salute Mentale il 6 marzo scorso, a cui hanno partecipato realtà pubbliche e private che lavorano nell’ambito dell’assistenza e della riabilitazione in salute mentale. Realtà che lottano per i diritti e l’aumento della qualità della vita di persone che vivono un disagio mentale e intraprendono un percorso di cura. Purtroppo, però, in psichiatria, spesso i percorsi di cura non rispondono alle esigenze esistenziali delle persone, e le residenze sanitarie non rispondono a oggettivi bisogni clinici (e di salute), ma all’impossibilità pratica di trovare un luogo tranquillo dove stare e ripartire, ricostruendo la propria identità e autonomia. In altre parole, mancano soluzioni intermedie, più flessibili e individualizzate, tra i contesti di cura protetti, con assistenza h24, utili nei momenti di crisi, e contesti in cui vivere in un’autonomia crescente, in normali abitazioni, con un’assistenza adeguata e specifica a riprendere in mano la propria vita. L’abitare supportato è una tipologia di intervento che agisce sui cosiddetti determinanti sociali di salute e funziona nel momento in cui non è un semplice luogo dove stare, ma diviene la base per un progetto terapeutico individualizzato complessivo che comprenda la possibilità di lavorare su di sé, sulle proprie relazioni, sulla possibilità di formarsi e riprendere a lavorare.
Nell’ultimo anno, a causa della pandemia, la casa è divenuta anche luogo di reclusione, e, come ci ricorda Anita, per tante donne vittime di violenza psicologica e fisica, purtroppo, la casa non è sinonimo di «riposo, protezione e cura», ma diversamente, diviene una «gabbia, una trappola», in cui i propri spazi e i propri diritti vengono costantemente negati. La vera “casa” è il luogo in cui ci sente al sicuro, tuttavia, “molte famiglie non si possono permettere una casa in cui stare tutti bene”: e a tal proposito, ci siamo interrogati sul rapporto tra casa e spazi urbani, tra la dimensione privata e pubblica, sociale, dell’abitare.
D’altra parte, la casa può diventare luogo di inquietudine e di alienazione, sempre più iper-connessa a livello tecnologico (vedi domotica), ma sconnessa a livello sociale, facendo diventare anche il proprio vicino di appartamento, uno sconosciuto, un “alieno”, una presenza che, con il suo sguardo, destabilizza. Nella totale assenza di un senso di appartenenza a una comunità più ampia, nel perdere l’abitudine dell’incontro reale, pratico, quotidiano con l’altro che mi vive a fianco, si perde familiarità anche con se stessi, e la trilogia dell’appartamento di Roman Polanski, ci mostra in modo magistrale come questo possa accadere.
Perché la casa, più che un luogo fisico, è uno spazio emotivo in cui sentirsi compresi e capiti. Spazio emotivo che può, e deve, ampliarsi alla dimensione sociale e ambientale. E questo può accadere solo cambiando le nostre abitudini. Estendendo con le azioni il concetto di casa, da una sfera solo “privata”, e privata di tutto, a una sfera pubblica, in cui sentiamo di appartenere a un quartiere, a una città, a una comunità più ampia che condivide bisogni, necessità, spazi e possibilità.
Redazione