L’Io e l’Es: la casa come correlativo oggettivo del personaggio che vi abita
Repulsione: l’appartamento come metafora della psiche della protagonista
Orso d’argento al Festival di Berlino del 1965, Repulsione è il secondo lungometraggio di Roman Polanski con una giovane Catherine Deneuve nei panni di Carol, una ragazza che lavora come estetista a Londra, dove vive insieme con la sorella in un appartamento in affitto.
Il film si apre e si chiude su due diverse immagini dell’occhio di Carol, spalancato come quello di Marion (Janet Leigh) in Psyco (1960) di Alfred Hitchcock al termine della famosa scena della doccia, in cui la dissolvenza dell’occhio con lo scarico della vasca si impregna di profondi significati simbolici come lo scorrere del tempo che tutto inghiotte. Analogamente le immagini in apertura e chiusura del film di Polanski racchiudono significati altrettanto metaforici, suggerendo allo spettatore che per meglio comprendere il personaggio di Carol, e il perché del suo sguardo vacuo, bisognerebbe fare un balzo indietro nel tempo fino alla sua infanzia, dove tutto ebbe inizio (nell’ultima inquadratura la camera stringe su una foto di Carol da bambina fino al dettaglio del suo occhio).
Repulsione è il primo film della cosiddetta “trilogia dell’appartamento” del regista polacco (seguono Rosemary’s Baby e L’inquilino del terzo piano). Nei film della trilogia, l’appartamento rappresenta melodrammaticamente tutto ciò che concerne l’interiorità del personaggio che lo abita, divenendone una sorta di correlativo oggettivo. All’avanzare della pellicola corrisponde l’evolversi della psicosi della protagonista, la quale inizialmente si presenta come donna algida, riservata, di poche parole e spesso pensierosa (in realtà assente), per dar sfogo più avanti al manifestarsi dei proprio disturbi mentali, dalla repulsione per gli uomini fino alla degenerazione nel delirio psicotico. È così che l’appartamento, da nido in cui potersi rifugiare, diventa la dimora dove abitano e si manifestano paure, incubi, paranoie e allucinazioni.
Appartamento come psiche quindi, e anche come corpo, come la costruzione cinematografica dell’interiorità del personaggio, in principio discretamente stabile, infine totalmente inabitabile, disordinato, trascurato, oscuro, distrutto. In più scene le mura si sgretolano come la psiche di Carol che proietta all’infuori tutto il suo mondo interiore, fatto di sofferenza e traumi infantili. Con Repulsione Polanski costruisce un thriller psicologico, divenuto un cult del genere grazie all’ipnotica recitazione di Catherine Deneuve e all’atmosfera inquietante in cui sono già presenti le principali tematiche che, più avanti, caratterizzeranno il cinema del regista: le ossessioni, le paranoie e le allucinazioni, le relazioni umane, l’indagine psicologica e i conflitti con la società.
Rosemary’s Baby: una minaccia che incombe dal di dentro
Tratto dal romanzo omonimo di Ira Levi, Rosemary’s Baby (1968) di Polanski comincia con una veduta dall’alto di New York. Un incipit dal sapore noir, ancora una volta hitchcockiano (si pensi, per esempio, a Nodo alla gola o a Psyco) dove la macchina da presa vola fantasmaticamente fra i palazzi e le abitazioni della metropoli americana, trasmettendo l’impressione, con il graduale avvicinarsi della propria presenza invisibile, di qualcosa che sta per incombere. Questo piano sequenza iniziale, caratterizzato da un movimento “aereo” della macchina da presa, restituisce la sensazione di “presenza estranea”, sempre più angosciosa e soffocante, incarnata nel corso del film dagli inquilini del condominio dove si trasferiranno Rosemary Woodhouse (Mia Farrow) e il marito Guy (John Cassavetes). L’agente immobiliare, che mostra l’unico appartamento libero alla coppia di coniugi, spiega che esso apparteneva a un’anziana signora, morta da poco. L’uomo però ci tiene a sottolineare che l’inquilina precedente non è deceduta nell’appartamento, bensì in una clinica.
Sono presenti già alcuni aspetti che torneranno nel successivo e ultimo film della trilogia dell’appartamento. Anche L’inquilino del terzo piano (1976) comincerà, difatti, con un prologo teso a mostrare l’esterno del condominio in una modalità analoga, dove macchina da presa si presenterà di nuovo come un fantasma che aleggia, una minaccia che incombe dal di fuori sulle abitazioni del condominio. Altre similitudini si hanno nel momento in cui si parla dell’inquilina precedente: se in Rosemary’s Baby l’agente immobiliare spiega che la signora è deceduta in una clinica, ne L’inquilino del terzo piano la portinaia dirà al nuovo inquilino Trelkovsky (interpretato dallo stesso Polanski) di non preoccuparsi dell’inquilina, dal momento che, essendo ricoverata in una clinica, sarà molto difficile che torni a occupare l’appartamento.
Si è visto che in Repulsione la protagonista è una ragazza con evidenti disturbi psicologici, derivati da traumi infantili, mentre L’inquilino del terzo piano è l’unica pellicola enigmatica riguardo l’interpretazione della narrazione: la “minaccia” è ambigua, lo spettatore si domanda infatti se è il protagonista a essere pazzo fin dall’inizio, o a cominciare a delirare da un certo punto in poi (e se sì, da quando?), o se la causa delle sue paranoie sono i comportamenti dei condomini, o in senso ancor più ampio della società (si veda il paragrafo successivo). Questa premessa per dire che, a differenza degli altri capitoli della trilogia, in Rosemary’s Baby lo spettatore sa, fin quasi dal principio, che il condominio non è altro che la sede di una congrega e in quanto tale gli inquilini sono tutti seguaci di una setta devota a Satana, con tanto di riti, fatture, corruzioni e, non in ultimo, miscele e intrugli per far sì che il figlio del diavolo (che Rosemary porta in grembo) cresca sano e forte. Rosemary dunque non è pazza, e di questo lo spettatore onnisciente ne è al corrente fin da subito, ed è proprio su tale consapevolezza spettatoriale che si trascina il film. Tutti sanno, tranne la protagonista, ciò che sta accadendo, ed è una delle caratteristiche che genera suspense e definisce l’horror.
L’inquilino del terzo piano: una narrazione della distruzione dell’identità
In molte interpretazioni, L’inquilino del terzo piano viene letto come la narrazione della nascita e l’evoluzione della malattia del protagonista. È indubbio che il tema del delirio paranoico sia parte del film, e diventa sempre più evidente con l’avanzare della narrazione, ma sarebbe troppo semplicistico ridurre tutta la pellicola (e il romanzo di Roland Topor da cui è tratta) a questa chiave di lettura, senza inserirla all’interno di un contesto più ampio. Il delirio paranoico è solo un effetto della perdita dell’identità a cui gira intorno la storia. I vicini non sono semplici persone severe e intolleranti che portano Trelkovsky (Roman Polanski) a soffrire di allucinazioni, sin dall’inizio essi rappresentano invece la società che sta fuori la porta di casa, che manipola il soggetto per farlo essere come essa vuole, imponendogli gusti e comportamenti, cercando di annullare l’identità del singolo; questo spiega il continuo riferimento agli specchi che raffigurano la scissione dell’Io e il fatto che l’identità di Trelkovsky venga gradualmente cancellata per lasciare posto alla “nuova” Simone Choule.
La storia in sé potrebbe dunque narrare solo uno dei tanti suicidi provocati dai vicini-società nei confronti di chi, di volta in volta, abita quell’appartamento. La casa esprime sempre qualcosa che è legato al carattere, ai gusti e allo stile di vita di una persona, melodrammaticamente essa può essere considerata il corpo in cui abita e con cui viene espressa l’identità. Ma appena si mette piede fuori, si entra in contatto con la società da cui è impossibile alienarsi, anche cercando di rinchiudersi nel proprio nido come fa Trelkovsky. Perché la società è sempre lì fuori che sbatte alla porta e alle pareti della sua abitazione, influenzando il comportamento nel ricordargli che non è solo e che si deve adeguare alle sue leggi. Già dal titolo del romanzo di Roland Topor, La locataire chimérique, il protagonista viene descritto non in base al lavoro che fa o a una propria caratteristica personale ma come un inquilino, chimerico, colui che abita… ma cosa, dove, con chi, o meglio, circondato da chi? Il lavoro di distruzione dell’identità è annunciato già nel titolo e ha inizio dalla prima frase del romanzo: «Trelkovsky era appena stato sfrattato» e dai titoli di testa del film, dove le immagini di Trelkovsky e Simone Choule si alternano e fondono, preannunciando la trasformazione. Bisogna ricordare, inoltre, che il protagonista nel romanzo è russo, nel film polacco come Polanski, ma sin dall’inizio viene detto che trasferendosi a Parigi assumerà la cittadinanza francese. Va notata anche la fermezza con cui la portinaia rassicura Trelkovsky riguardo l’appartamento dicendogli che “non c’è pericolo” che l’ex inquilina guarisca e torni a occuparlo. Siamo solo all’inizio di una serie di eventi che influenzeranno la quotidianità del protagonista, il quale diverrà sempre più ansioso e sottomesso a causa del timore per il giudizio dei vicini. Così, dopo qualche lamentela in seguito a una serata passata insieme ad alcuni amici, la mattina seguente Trelkovsky, trasportando l’immondizia, perde i rifiuti per le scale e, nonostante si affretti nel tornare indietro a riprenderli, essi sono già scomparsi; sono sparite le sue tracce, come se lui non fosse mai passato. Comincia a diventare paranoico. Poco dopo subisce un furto e il proprio appartamento viene messo sottosopra. Il processo di cancellazione/trasformazione della sua identità si fa sempre più evidente. Il giorno in cui Trelkovsky si sveglia, e nello specchiarsi vede che è truccato come una donna, comincia a riflettere e trae la conclusione che i vicini (e non solo) stiano tramando contro di lui per farlo impazzire e portarlo alla disperazione come hanno fatto con Simone Choule. Anche i baristi infatti danno il loro contributo, servendogli sempre, senza chiedere, ciò che ordinava la precedente inquilina.
Il processo che si è avviato è irreversibile e Trelkovsky comincia a rendersene conto. Il fatto che lui veda se stesso in un altro è un effetto della scissione dell’Io; egli assume sempre più l’identità di Simone, nonostante cerchi di impedirlo, al punto di vedere il suo corpo fuori da sé (dissociazione). Infine, nel tentativo di sfuggire alle grinfie dei vicini, finisce per gettarsi dalla finestra, uscendo dal suo appartamento-corpo nella volontà di negare ciò in cui la società lo ha trasformato, ma allo stesso tempo confermandolo, compiendo il processo a cui era stato destinato. La morte (che avverrà nello stesso modo di Simone Choule) è la distruzione definitiva dell’Io. L’ultima scena in ospedale sembrerebbe confermare tutto: Trelkovsky delirante quando vede se stesso non prova spavento, anzi «l’immagine era confortante perché sembrava riflessa da uno specchio» ha scritto Topor, e continua «come gli sarebbe piaciuto vedersi così, in uno specchio!». Ma poi arriva Stella che lo chiama per nome: «Simone!», Trelkovsky lancia un urlo.
Conclusioni: una trilogia psicoanalitica
La trilogia dell’appartamento di Roman Polanski può essere considerata una sorta di trilogia psicoanalitica, che tira in causa persino lo spettatore stesso. Fin dal primo capitolo, Repulsione, il regista ci parla delle conseguenze che determinati eventi traumatici hanno sulla psiche umana e come quest’ultima provvede alla sopravvivenza, laddove è possibile. In Repulsione, il personaggio di Carol è il risultato di una bambina vittima di abusi sessuali, ciò risulta evidente nell’ultima immagine del film, dove l’inquadratura riprende una foto di famiglia per poi stringere nel dettaglio del volto terrorizzato della piccola che guarda un uomo. Per tutta la vita, Carol avrà il terrore di qualsiasi tipo di approccio con l’altro sesso, tant’è che lavora come estetista, vive insieme alla sorella e fugge continuamente dalle relazioni con gli uomini. In Rosemary’s Baby le conseguenze psicologiche dei comportamenti perpetrati dalla congrega iniziano a incidere, man mano, sulla salute fisica e mentale della protagonista fino a “esplodere” nel finale, dove l’unica salvezza per non distruggere tutto – o meglio, per non accettare che tutto sia andato in frantumi (matrimonio, maternità, il sogno di una vita semplice e serena) – per Rosemary non è affatto quella di guardare in faccia la realtà con sguardo critico e fare un passo indietro, ma di continuare a viverla “di rimbalzo”, riconoscendo che, suo malgrado, ne fa parte. Così, Rosemary finisce per accettare tutte le condizioni pur di crescere il proprio figlio, nonostante sia il frutto di un inganno, di una violenza sessuale (e chiaramente psicologica) e che il bambino non solo non è del marito, ma appartiene a satana. Ne L’inquilino del terzo piano anche lo spettatore fa fatica a capire quale sia la causa degli effetti sul personaggio di Trelkovsky, quale sia la molla che ha fatto scattare il meccanismo delirante su cui si basa la pellicola.
Nella trilogia dell’appartamento si parte dall’ambiente familiare, con Repulsione, dove il “nemico” fa parte della famiglia; per poi estendere l’analisi al condominio, con Rosemary’s Baby, dunque al vicinato e ai seguaci della congrega, qui i confini si allargano ma l’area è pur sempre circoscritta. Con L’inquilino del terzo piano il campo dell’analisi si estende all’intera società: non si tratta più solo dei condomini, ma anche dei baristi, dell’amica della precedente inquilina, e di chiunque altro. È chiaro che nel substrato di queste trame ci sia un nesso con la biografia dell’autore – le accuse di abusi nei confronti di una minorenne; il brutale assassinio di sua moglie Sharon Tate, da parte della Manson Family, quando era in procinto di partorire (avvenuto l’anno successivo all’uscita di Rosemary’s Baby); e l’espatrio del regista in Europa – evidente soprattutto nel terzo film, dove Polanski interpreta persino i panni del protagonista che, ricordiamo, è polacco naturalizzato francese, proprio come il regista. Di fatto Trelkovsky, così come Carol e Rosemary, si sente accerchiato ma, se nei primi due film della trilogia un’ipotetica via di fuga è attuabile, o quantomeno pensabile, così per le protagoniste come per lo spettatore, ne L’inquilino del terzo piano lo spettatore stesso entra nel meccanismo pulsionale su cui ruota la pellicola, non riuscendo a individuare la minaccia, il colpevole, il nemico, se non nell’intera società. Per Trelkovsky (e Polanski?), in tal senso, non sembra esserci alcuna via di scampo, nessuna redenzione.
Martina Cancellieri