Quanto accaduto poche settimane fa a Roma è noto a tutti: un intervento di sgombero di un edificio in via Curtatone, abitato dal 2013 da diverse centinaia di persone in prevalenza eritrei ed etiopi in possesso dello status di “rifugiati” o di quello di “richiedenti asilo”, è stato seguito da uno più ‘duro’ nei confronti di più di un centinaio di loro che, non sapendo dove andare, si erano accampati in piazza Indipendenza. L’uso degli idranti (“per prevenire incendi…”) e delle maniere forti (“spezzategli le braccia”) ha sollevato le proteste di tutti coloro che non pensano che la pulizia urbana sia la soluzione a un problema epocale. Si sono pronunciati i partiti –alcuni-, la Chiesa -una parte-, le organizzazioni impegnate sul fronte della gestione ed assistenza ai migranti -tutte-.
Persino il capo della Polizia ha dichiarato che la frase violenta del funzionario impegnato nell’operazione è stata grave, pur se la responsabilità di quanto avvenuto sarebbe di chi non ha dato corso al piano comunale per risolvere il problema delle occupazioni abusive e per gestire la collocazione delle diverse migliaia di migranti nella capitale. Né gli si può dar torto. I fatti romani suscitano due ordini di riflessioni, uno relativo al contenuto sociale, politico ed etico delle posizioni nei confronti dell’ accoglienza e integrazione di masse di individui che fuggono da aree del mondo segnate da violenza e precarietà; l’altro che rimanda a uno scenario più intimo che attraversa la sensibilità collettiva e ne orienta le scelte a partire da un livello più sotterraneo, biopolitico verrebbe da dire.
Riguardo al primo livello, una prima considerazione riguarda come le istituzioni le affrontano un fenomeno di enorme complessità, cominciando dal Parlamento che si è distinto negli anni per leggi e decreti improntati alla difesa, al respingimento, all’espulsione. Un’altra riflessione rimanda all’oscillazione tra accoglienza e rifiuto. Alla tenzone politica tra parti che si identificano con la prima e quelle che animano e fomentano il secondo con il centro occupato da un governo –l’ultimo non differisce sostanzialmente dal precedente– che, incerto se perdere il consenso dei fautori della chiusura frontaliera o quello dei sostenitori della solidarietà, si barcamena senza una visione prospettica adeguandosi a una generale radicalizzazione di opinioni e comportamenti che non aiuta nessuno perché mai orientata in altre direzioni.
Ancora qualcosa si potrebbe dire sulla non ingenua né innocente confusione diffusa che mette nello stesso calderone migranti spiaggiati dei barconi, profughi in fuga dalle guerre, reclusi nei centri di accoglienza, richiedenti protezione umanitaria, richiedenti asilo, dententori di permesso di soggiorno, clandestini, possessori di piena cittadinanza, prime e seconde generazioni, ius soli e ius sanguinis, onesti e delinquenti, africani, asiatici, sudamericani ed europei e così via in un cospicuo catalogo delle diversità appiattite nell’alterità da cui hanno gioco facile ad attingere le posizioni razziste che chiedono la difesa di una incerta etnia nazionale (reclutando anche chi si dichiara convintamente antirazzista).
E poi c’è l’altro livello, e c’è il ministro. Non solo il ministro Minniti, cofirmatario insieme al suo collega di partito Orlando, di un decreto sui procedimenti in materia di protezione internazionale e di contrasto all’immigrazione illegale, che pare coniugare l’inseguimento dei temi della destra con un’esigenza di ammodernamento organizzativo e di praticità operativa. Ma anche il portatore, probabilmente inconsapevole, dello spirito dei tempi, di un’interpretazione di una sensibilità affatto moderna che trova negli strumenti di governo la sua attuabilità, la sua concretizzazione.
Viviamo in un epoca di individualismi esasperati in cui le persone sono da sole a risolvere problemi collettivi; siamo calati in un tempo in cui lo spazio del sé e la responsabilità individuale che ne deriva sono temuti e scansati come pericolo immanente alle nostre esistenze, dove è più accessibile trarre identità dalla posizione della vittima, che proietta sull’altro la causa dei propri disagi, piuttosto che farsene carico, impegnarsi per affrontarli. L’altro, non solo il diverso che ne è la versione più visibile, ma anche semplicemente il prossimo, è fonte di ansia e di inquietudine: se il migrante è una figura recente sulla scena pubblica della alterità, l’impatto si estende al contatto stesso con la vicinanza e l’intimità con gli esseri umani, che se non prevedibili e controllabili sono perturbanti, destabilizzanti i troppo precari assetti identitari.
Uno scenario di evitamento, un orizzonte fobico in cui il contatto va sventato, disattivato nel suo potenziale contaminante. Il decreto Minniti-Orlando pare interpretare questa sensibilità collettiva in due modi complementari. Lo snellimento delle procedure di accoglienza o respingimento delle richieste d’asilo che non rendono necessaria neppure l’udienza con coloro che avanzano istanza di status di rifugiato rispondono nella sostanza a questa esigenza di disincarnare i problemi, di deumanizzarli, di trasformarli in procedure e pratiche da risolvere bene e presto in modo efficiente senza entrare in rapporto fisico con l’altro, senza guardarlo negli occhi, leggere il suo volto, ascoltarne la voce e la storia, percepirne l’odore.
Anche l’abolizione del secondo grado di giudizio, dell’appello, oltre che modificare l’impostazione giuridica del nostro codice per rispondere a un’emergenza sociale (costituendo così un infido precedente), asseconda questa modalità sbrigativa ed efficientista di risoluzione dei problemi. E tutto questo avviene per decreto, senza ricorrere a nuove leggi e alla laboriosità e al rischio del confronto tra posizioni opposte e alla mediazione politica. E questa è la seconda modalità in cui l’antropologia della fuga si manifesta rivestita di decisionismo pragmatico.
I temi dell’esclusione, della mancata integrazione, della chiusura identitaria intorno al suolo o a supposte comunità di appartenenza non sono certamente nuovi né in politica né nella psicologia collettiva. Quello a cui si assiste nei nostri tempi è l’articolazione di reazioni espulsive viscerali, emotivamente condizionate dall’incertezza e dalla paura, area di elezione delle destre di sempre, con soluzioni in apparenza improntate al buon senso e alla razionalità attraverso la trasformazione in prassi amministrative e burocratiche di problemi etici, politici e valoriali che sono tematiche costitutive della sinistra.
Ma poi c’è anche il poliziotto. Sia quello che una fotografia ha fermato nell’atto di accarezzare una donna disperata sfollata con violenza dalla piazza, sia quel funzionario zelante che incita i suoi a prevenire problemi spezzando braccia, di uomini, donne, bambini non importa. A fronte della soluzione astratta, la trasformazione delle persone, ancorché migranti, rifugiati o profughi ma prima ancora persone, in problemi da risolvere e pratiche da evadere con sollecitudine, si collocano i corpi fisici degli uomini di polizia che toccano, consolano o violano altri corpi. Non è solo una riproposizione della spaccatura del paese tra chi accoglie e chi aggredisce, e neppure quella della bonomia insita nel carattere nazionale che, ancora una volta, si confronta con l’altra faccia violenta e aggressiva dello stesso, come abbiamo imparato dalla memoria del fascismo. C’è una distanza che si colma nell’impatto, nella carezza come nella manganellata tra la legge e chi ne fa le spese, uno spazio umano che riporta alla fisicità, al contatto e che trasforma in altro la fobia istituzionale.
Non c’è dubbio che tra un uomo che si intenerisce e uno che si carica di rabbia e la trasmette ai suoi colleghi non ci sono comparazioni morali che tengano. Tuttavia entrambe mi sembrano rispondere a una logica opposta rispetto a quella della fuga nella iperbole burocratico-documentaria perché mediante la fisicità e l’emotività consente un’irruzione non mediata della realtà .
E infine c’è il profugo. Un quotidiano li chiama giustamente così, indicando in questa denominazione uno stato di passaggio, un percorso da un là a un qua verso un altrove: molto diverso che compattare in categorie giuridiche o, peggio, di colore della pelle, persone la cui vicenda umana, personale o familiare, rischia costantemente di essere annullata dalla Storia da cui fuggono o da altri uomini, nel paese d’approdo, che li riducono a fenomeno, a problema da risolvere. Gente che vive, lavora, ama, odia, ha paura, vive con forza e caparbietà la sua esistenza nonostante le condizioni di abbandono, di indifferenza, di disprezzo, che quella umanità pongono sotto minaccia. Ancora una volta una declinazione della realtà pressante per la quale non c’è molto spazio, anche nella rappresentazione sociale e mediatica.
Dimentichiamo che tutti loro sono soggetti di diritto, non numeri né carte da esibire né, in una lettura aneddotica pietistica o paternalistica, soltanto esistenze da proteggere o da accudire. Il riconoscimento dei diritti umani, giuridici e civili è ben altro rispetto all’esercizio della carità e della pietà che pare invece il solo prezzo che la nostra società sembra disposto a pagare per mettere a tacere la colpa del rifiuto distanziante. Era successo così anche in passato quando le figure della diversità da escludere erano altre: ad esempio i matti internati nei manicomi, privati della propria storia e isolati dai loro contesti erano stati trasformati in numeri, in anime morte.
Ci vollero anni di lotta e di battaglie per riscattare quelle individualità, molte della quali compresse nella gabbia dei loro sintomi. Eppure qualcosa è avvenuto e non ha cessato di avvenire perché non esistono conquiste sociali e culturali valide per sempre e perché la smania concentrazionaria non è mai debellata. Se per i profughi scompaiono i CIE, i Centri per l’Identificazione ed Espulsione, compaiono ora i CPR, Centri di Permanenza per il Rimpatrio. Nomi, sigle, istituzioni, che non garantiscono l’unica combinazione vincente e realmente trasformativa per chi vive difficoltà e sofferenza, quella tra rispetto, garanzia dei diritti e preservazione dello spazio umano relazionale.
Antonello D’Elia, Presidente di Psichiatria Democratica
Immagine in evidenza: Angela Gennaro (CC License/Flickr)