Le donne non sono uomini in miniatura: farmacologia e genere

La farmacologia di genere è quella branca della farmacologia che indaga e definisce l’efficacia e i rischi dei farmaci in relazione al genere. Il genere è un concetto differente da quello di sesso: il genere è costruito socialmente in relazione al contesto e al periodo storico, definisce quindi i ruoli e i comportamenti che ogni persona in relazione al suo sesso biologico dovrebbe avere. Il sesso è determinato biologicamente. Per molti secoli sesso e genere sono stati considerati sinonimi oggi sappiamo che non è così: è il contesto culturale che impone a seconda del sesso biologico determinati ruoli, comportamenti da tenere e ciò che è possibile fare e non fare, a certi livelli la costruzione sociale del genere arriva persino ad inibire e determinare i nostri desideri.

La farmacologia di genere quindi studia nuovi prototipi di salute considerando sia le variabili biologiche che quelle sociali, valorizzando le differenze con l’obiettivo di trovare la miglior cura per tutti e tutte. Storicamente in ambito medico le uniche differenze riconosciute fra uomini e donne erano quelle a carico degli organi sessuali. Fino alle ultime decadi del secolo scorso si è avuta una medicina basata esclusivamente sull’uomo bianco occidentale e giovane. Oggi invece è risaputo che le differenze tra uomini e donne, tra bambine e bambini, sono numerose ed è necessario tenerle in considerazione. Questo pregiudizio di genere non ha riguardato solo le donne, ma in misura minore anche gli uomini, in quanto alcuni quadri sintomatici o patologie sono state considerate caratteristiche solo delle donne e quindi non studiate negli uomini (Franconi, Montilla e Vella, 2010)

La prima differenza di genere in ambito farmacologico risale al 1932: Nicholas e Barrow evidenziarono che la dose ipnoinducente di barbiturici nei ratti femmina era inferiore del 50% rispetto ai ratti maschi. La farmacologia però per molti decenni ancora ignorò la variabile di sesso e di genere in ambito clinico e pre-clinico, basando i suoi studi prevalentemente sui maschi; ciò che si è venuto a creare è un assurdo: i farmaci sono meno studiati nel sesso femminile che è però quello che ne fa un uso maggiore. Da varie ricerche (Franconi e Compensi, 2018) emerge come le donne facciano un uso dei farmaci superiore del 20-30% rispetto agli uomini, consumino maggiormente anche integratori alimentari e rimedi botanici (qui si arriva anche ad un 40% in più). È come se ci si trovasse di fronte ad un paradosso in quanto emerge come le donne si ammalino di più, vivono più spesso con una sintomatologia dolorosa ma accedono meno ai servizi di cura e sono portate quindi ad un maggior utilizzo di farmaci. A questo però non corrispondono evidenze scientifiche e ricerche che vedano in prima linea campioni composti da donne.

La popolazione anziana è composta maggiormente da donne (la popolazione sopra i 75 anni è composta al 63% da donne). Le donne non guadagnano anni in salute ma in disabilità, ad una maggiore longevità non corrisponde sempre benessere. Gli uomini invece vivono meno ma gli anni che guadagnano sono nella maggior parte dei casi anni in salute. Altri elementi andrebbero tenuti in considerazione in un analisi di genere: una donna su tre in Italia subisce violenza – violenza intesa non solo come stupro, che rappresenta la punta di un iceberg, ma anche stalking, molestie, violenza psicologica ed economica- e questo è un fattore determinate nella vita della persona; inoltre molto spesso gli stati fisiologici di vita di una donna tendono ad essere medicalizzati: la gravidanza, il ciclo mestruale ma anche la menopausa. Si può prendere quest’ultima come esemplificativa di come i normali stadi biologici di vita vengano sottoposti in maniera inappropriata a cure mediche (Franconi e Compensi, 2018): la terapia ormonale sostitutiva – trattamento medico che consiste nella somministrazione di ormoni estrogeni e/o progestinici e talvolta androgeni per alleviare i possibili  disturbi determinati dalla menopausa stessa – è stata proposta a milioni di donne senza tenere in considerazione che le basi su cui veniva somministrata erano studi osservativi e brevi.

Due importanti studi hanno portato alla riduzione dell’utilizzo di questa terapia e fatto emergere come questa sia utile esclusivamente per i sintomi della menopausa che risultano invalidanti e per il più breve tempo possibile e con il dosaggio minimo. Ultimo elemento da considerare, non meno importante, è il diverso trattamento che i medici spesso riservano alle donne: difronte al medesimo quadro clinico alle donne vengono somministrati farmaci che invece all’uomo non vengono prescritti. Ci troviamo di fronte quindi ad un eccessiva medicalizzazione delle donne o invece a un “sovra-trattamento delle donne e un sotto-trattamento degli uomini”? E’ necessario tenere in considerazione quindi non solo chi riceve le cure ma anche chi le eroga e quindi la relazione utente-operatore sanitario che risente notevolmente del genere di entrambe le figure; si è notato infatti come la migliore relazione terapeutica si instauri nelle diadi formate da persone dello stesso sesso (Franconi e Campesi, 2013).

Sempre dalla ricerca di Franconi e Compensi (2018) emerge come le donne vivano un rischio maggiore di sviluppare effetti avversi per i farmaci (1,5-1,7 volte superiore) e il 59% di ricoveri causati dagli effetti avversi dei farmaci è a carico delle donne. Le cause di questo fenomeno sono multiple e varie: la politerapia, la presenza di più donne anziane rispetto agli uomini, il diverso trattamento del medico ma anche il fatto che i dosaggi dei farmaci sono standardizzati su un uomo di 70 kg e quindi è molto facile e intuibile come si possano determinare sovradosaggi nelle donne. In un ulteriore studio svolto in Canada (Bufarini, 2014) si è registrato che il 70% dei ricoveri per reazioni avverse ai farmaci era a carico delle donne, qui lo studio sottolinea come i dosaggi sono stabiliti in base a ricerche che si sono condotte prevalentemente sugli uomini e quindi potrebbero risultare inappropriati per le donne.

Nasce spontaneo domandarsi perché ciò accade, perché la farmacologia negli studi non ha tenuto in considerazione le donne, perché nelle diverse fasi di ricerca su un determinato farmaco non si è considerata la variabile di genere? Sarebbe troppo facile rispondere semplicemente dicendosi che viviamo in una società maschilista, sessista e patriarcale e questa è la logica conseguenza; questo fa da cornice ma interessante andare a indagare cosa ci sta sotto. Ancora oggi nella ricerca farmacologica esiste il bias di genere e molto spesso, troppo spesso si assume che uomo e donna siano identici se non per le caratteristiche sessuali, portare avanti una ricerca di genere risulta essere estremamente costoso in quanto è necessario tenere in considerazione delle costanti variazioni che il corpo della donna vive (ad esempio gravidanze, ciclo mestruale) e anche la difficoltà delle donne stesse a partecipare a questi studi in quanto più soggette a precarietà esistenziale.

Ad oggi in Italia e in Europa non esistono regole ben definite per l’inclusione delle donne negli studi e questo porta spesso ad un inappropriatezza nelle cure. Occorre quindi “arruolare le donne e tener conto dell’esistenza della cosiddetta variabilità femminile, che dipende dalle variazioni ormonali fisiologiche e dall’uso degli ormoni sessuali per la contraccezione e per la terapia ormonale sostitutiva in post-menopausa che possono modificare i parametri farmacocinetici e farmacodinamici modificando anche il modo di lavorare dei nostri geni” (Franconi e Campesi, 2013).

Fino gli anni ’90 negli studi clinici e pre-clinici era totalmente assente la presenza delle donne appare invece oggi sempre più necessario prevendere sottogruppi di maschili e femminili. I farmaci dovrebbero essere studiati sull’intera popolazione che poi li andrà ad utilizzare e non solo su una parziale metà, gli uomini. Da qui il titolo dell’articolo le donne non sono piccoli uomini o uomini senza pene. Negli studi per la commercializzazione del farmaco è necessario considerare il genere ma anche l’etnia, il peso corporeo, l’età, malattie sottostanti, gli effetti degli ormoni esogeni e l’effetto che si potrebbe avere con terapie concomitanti (Bufarini, 2014). È altresì necessario non solo incrementare l’arruolamento delle donne ma creare disegni di ricerca che in sé prevedano un’analisi di genere.

Già nel 1991 venne introdotto il concetto di questione femminile nelle cure mediche da parte di Bernardine Healy, direttrice degli US National Institutes of Health, la studiosa voleva sottolineare come le donne con cardiopatie fossero discriminate rispetto agli uomini con la stessa malattia in quanto più soggette a cure invasive e maggiormente sottoposte ad errori diagnostici. Solo nel 2002 venne introdotto presso la Columbia University di New York il primo corso di medicina di genere. L’OMS (Organizzazione mondiale della sanità) ha fatto un ulteriore passo in avanti inserendo la medicina di genere nell’Equaly Act. Il processo è lento ma qualcosa si sta muovendo ed è necessario continuare a studiare quale influenza il sesso biologico e le determinanti sociali, come il genere, ma anche l’età e l’etnia o lo stadio del ciclo di vita che si sta vivendo – l’essere una donna in gravidanza o l’essere una bambina – hanno sulle differenze biologiche tenendo sempre in considerazione che il neutro e lo standard (farmaci standardizzati su uomini caucasici di 70 Kg) in questo caso non sono altro che un pericolosissimo annientamento delle differenze.

 

 

Bibliografia e sitografia

Franconi, F., Montilla, S. e Vella, S. (2011) Farmacologia di genere. Italian Journal of Medicine 5,70—71

Franconi, F. e Campesi, I. (2018) Farmacologia di genere. Il Pensiero Scientifico Editore

Franconi, F. e Campesi, I. (2013) Introduzione alla Farmacologia di Genere. Giornale Italiano di Farmacoeconomia e Farmacoutilizzazione, 5 (4): 11-17

Bufarini, C. (2014) La farmaceutica di genere

http://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/medicina-e-ricerca/2017-05-02/medicina-genere-e-ipotesi-evolutiva-162633.php?uuid=AELSaqEB