Il gioco d’azzardo: il fenomeno e un po’ di numeri

foto di Ferruccio Zanone

Quando si parla di gioco d’azzardo è forse buona cosa cominciare a farlo dai numeri, così da rendere subito chiara la questione: stiamo parlando di un giro di affari annuo di quasi novanta miliardi di euro (un incasso per lo Stato pari a nove miliardi). Detto questo verrebbe da subito spontaneo chiedersi: perché fermare il tutto, visto i guadagni? Sarebbe forse meglio non fermarsi alle apparenze, e capire cosa questi guadagni comportino. Nel 2016 (fonte “Ludocrazia”, libro a cura di Marco Dotti e Marcello Esposito) sul territorio italiano sono più di 400.000 le “macchine” da gioco, veri e proprio algoritmi della dipendenza in forma di carcasse metalliche che della “macchina” hanno solo la maschera. Dietro si nascondono in realtà “macchine” perfette il cui unico scopo è quello di impoverire chi le utilizza. Eppure, nonostante il palese rischio al quale tali macchine infernali ci espongono, molti di noi ancora ci cascano. Più o meno come accade col fumo. Ad ogni modo questa forma di azzardo è solo l’ultima faccia di un’evoluzione che dura da millenni. Anzi, possiamo dire che l’attuale gioco d’azzardo si interfaccia alla grande con i tempi moderni. Le caratteristiche grezze dell’azzardo di massa sono infatti: la velocità del gioco, e la rapidità (o “istantaneità”) che permette di bruciare anche grosse somme in pochi minuti, senza contare che la possibilità di inserirsi in un flusso è possibile 24 ore al giorno, sette giorni su sette. Ciò che ora viene definito col termine ludocrazia nasce proprio dalle conseguenze che il gioco d’azzardo ha sulla società: “finanziariazzione estrema dell’esistenza, costituzione di antropologie di vita a debito e gamification integrale, ovvero riduzione entro schemi di gioco e, quindi, depotenziamento del conflitto sociale […] Fine della dialettica. Fine del dialogo. Solo massa sferica senza contraddizioni, circolazione infinita di segni che non si escludono, ma si elidono. Trasformare tutto in gioco (e in azzardo) annulla non solo le potenzialità del gioco. Annulla l’umano in quanto tale” (“Ludocrazia”, p.11, 17).

Ciò che preoccupa è constatare i numeri di questo esercito di zombie. Circa 10 anni fa (è del 2009  l’ultima indagine di un certo rilievo numerico in Italia) si è calcolato che più di 30 milioni di persone giocano regolarmente denaro in pratiche d’azzardo. Dobbiamo comunque distinguere tra giocatori occasionali (ossia la maggioranza, cioè quelli che giocano una volta l’anno, magari con i parenti a natale, oppure quelli che comprano un “gratta e vinci” solo a capodanno e basta), coloro che invece investono discrete somme ma senza esserne necessariamente dipendenti (parliamo di una fetta che va dall’1,3% al 3,8%), e infine coloro che hanno una vera malattia conclamata per il gioco (siamo tra lo 0,5% e il 2,2%). Inoltre, non possiamo ignorare il fenomeno femminile. Almeno un terzo dei giocatori patologici è composto da donne di età compresa tra i 48 e i 55 anni (con picchi fino ai 75 anni). E gli adolescenti? Secondo una ricerca promossa dalla Società Italiana dei Medici Pediatrici e dall’Organizzazione Nazionale sulla salute dell’Infanzia e dell’Adolescenza, nel 2014 più di 800.000 adolescenti fra i 17 e i 19 anni ha giocato d’azzardo, mentre sono circa 400.000 i bambini fra i 7 e i 9 anni che sono stati iniziati (per lo più dai genitori) al gioco d’azzardo.

Due sono i fenomeni che riescono a sguazzare indisturbati in questa follia: il primo fenomeno è sintetizzato dagli smartphone, che attraverso le proprie applicazioni rendono la giocata veloce, sicura, ed ininterrotta (ossia disponibile 24 ore su 24). È fin troppo scontato ricordare che con uno smartphone il giocatore ha la possibilità di usufruire dell’azzardo ovunque voglia e quando voglia, ma il pensiero va ad un’altra verità: se, considerando la totalità dei giocatori d’azzardo, sono il 60% coloro ad utilizzare le varie applicazioni, per quanto riguarda i giovani la percentuale sale al 95%. Praticamente tutta la classe dirigente del futuro (già giocatrice) gioca dove e quando vuole, nel senso che quando decide di farlo, lo fa. Non ha ripensamenti, non ha attimi di esitazione, non ha dubbi. Sa come si fa, e lo fa. Altrettanto preoccupante è il secondo fenomeno che ha molto da guadagnare dall’azzardo: stiamo parlando naturalmente della criminalità organizzata, che con le slot in particolare fa affari d’oro: da alcune inchieste svolte dal giornale Avvenire si è venuto a scoprire che “la fase di sperimentazione era avvenuta dal 2010 a Caltanissetta, dove un clan mafioso aveva messo a punto un metodo per inghiottire le giocate provenienti dal sistema legale dirottando verso le proprie casse, attraverso congegni informatici, le puntate che venivano così sottratte all’erario quasi senza lasciare traccia” (“Voci del Verbo Avvenire”, p.117). La mafia, in sostanza, non si metteva certo a truccare le giocate. Se lo avesse fatto avrebbe di sicuro perso i “clienti” giocatori. Si limitava anzi a sottrarre allo Stato quanto dovuto in tasse in modo che le slot comunicassero dati falsati alla centrale dell’Agenzia dei Monopoli di Stato. Uno Stato che, addirittura, invece di guadagnarci ha cominciato addirittura a perderci.

E così la corruzione, da concetto, da cosa reale, si riversa anche sull’idea stessa di gioco, che qui non è più gioco. È un qualcosa che non sappiamo come definire, e verso il quale siamo costretti a stare dietro, perché se non ha colpito noi potrebbe colpire magari chi ci sta vicino, e noi dovremo essere in grado di accorgercene prima che sia troppo tardi. Già che ci sia, da parte dell’attuale governo, l’intenzione di ridurre le slot e le pubblicità del gioco d’azzardo è una cosa positiva. Ma non bastano le intenzioni, occorre agire seriamente. Non possiamo certo dilungarci sulle conseguenze che l’azzardo ha sulle persone (depressioni, crisi emotive, debiti, compulsività…), non ne abbiamo il tempo e il modo. Possiamo però concludere dicendo che se qualcuno dovesse mai dirvi “io faccio quello che voglio” sarebbe il caso di ricordargli che la ludocrazia è una scienza al servizio di un business e che, proprio per questo, nulla è lasciato al caso. Tutto è già scelto, pianificato, messo a valore in modo rigoroso: “il comportamento umano davanti al gioco non è più libero né dettato da regole, ma plasmato in presa diretta da una dinamica che muta e si orienta secondo logiche di simulazione che danno al giocatore la parvenza delle regole, l’illusione della sorte, l’immaginario del gioco invaso” (“Ludocrazia”, p.19). Le chance sono programmate, calcolate, orientate e volute dal banco. Quindi se chi pratica il gioco d’azzardo pensa di “fare ciò che vuole”, in realtà fa “ciò che vogliono gli altri”. Che è ben diverso.

Matteo Roberti