
Tornando a parlare di gioco non d’azzardo (ci eravamo lasciati qui) ricordiamo che avevamo sostenuto, o forse dovremmo dire ipotizzato, un certo rapporto tra umano e divino proprio nella performance del gioco stesso. L’essere umano, muovendosi all’interno del mondo del gioco, lo plasma, lo fa proprio, lo modifica, ne fa ciò che vuole. E, attraverso di esso, noi possiamo diventare infiniti. Esattamente come farebbe un Dio con la nostra terra. L’unica consapevolezza che abbiamo, e che di fatto ci riporta con i piedi sul pavimento, è che sappiamo che tutto il gioco è finzione. Il mondo creato dal gioco è un mondo che non esiste. Possiamo essere divinità quanto ci pare, ma lo saremo verso un mondo che non esiste davvero, un mondo che inizia e che finisce con il gioco stesso.
Di realtà parallele ed inesistenti ne sa qualcosa Luca Giuliano, un altro autore italiano piuttosto noto ed importante nell’ambiente. Non possiamo parlare di tutti i suoi studi sul gioco di ruolo, ma possiamo citare la sua visione di gioco, che parte appunto proprio dall’illusione: citando Giuliano, gli autori Marcello Ghilardi e Ilenia Salerno ci illuminano sul fatto che “il termine illusione possiede un’etimologia legata al ludus, gioco; in-lusio indica l’immergersi, l’entrare nel gioco inteso come spazio e tempo regolato da convenzioni, ambito distinto dalla realtà quotidiana. Il ludus riferito all’identità consiste in questo piacere di creare delle regole per moltiplicare se stessi e l’ambiente che ci circonda e sottomettersi a queste regole con ostentazione […] Il ludus è la garanzia di conservare il controllo sulla moltiplicazione dell’Io, la consapevolezza della finzione e della maschera” (Giochi di Ruolo, p. 89-90). La domanda che sorge spontanea risulta essere la seguente: perché ricorrere alla finzione? Cosa porta l’essere umano a cambiare la realtà che ha di fronte? Ci provano sempre i due autori di prima a dare una risposta, chiamando però in causa questa volta Friedrich Schiller: “il gioco permette di conciliare le pulsioni e gli egoismi individuali con la supremazia della ragione etica, attraverso un rapporto di reciprocità che deve essere conseguito per realizzare la completezza dell’uomo. Questo obiettivo si esplicita soprattutto grazie ai valori estetici, nel perseguimento della bellezza e dell’amore, che a loro volta possono essere favoriti, rilanciati con l’esperienza del gioco” (ivi, p. 93).
Ci sentiamo incompleti, è inutile girarci intorno. Per quanto possiamo creare delle relazioni umane a livello sociale, che siano costruirsi una famiglia, farsi degli amici o trovare un lavoro (ma anche avendo tutte e tre queste cose, o addirittura ricorrendo alla solitudine o all’incontro con Dio), la nostra voglia di evasione l’avremo sempre, ed in un modo o nell’altro saremo costretti ad ascoltarla ogniqualvolta ci porta il conto. Secondo Stuart Brown: “l’impulso di giocare è diventato un istinto biologico […] gli studi dimostrano che nel momento in cui tutti i loro istinti vengono sfamati e sono al sicuro e riposati, i mammiferi cominciano spontaneamente a giocare […] da bambini, la nostra ricompensa per il gioco è più intensa, perché ne abbiamo bisogno per aiutare il cervello a svilupparsi rapidamente. Da adulti il cervello non si sviluppa così velocemente e l’istinto di gioco può non essere così forte, perché stiamo bene anche senza giocare per un breve periodo. Spesso il lavoro o altre responsabilità ci fanno accantonare il gioco. Ma se questo viene negato per un lungo periodo, il nostro umore si oscura. Perdiamo il nostro ottimismo e diventiamo anedonici, o incapaci di provare piacere intenso” (Gioca! Come il gioco può formare la mente, aprire l’immaginazione e costruire la felicità, p. 42). Brown è molto ottimista, secondo lui la capacità di giocare è fondamentale non solo per essere felici, ma anche per stabilire relazioni sociali e diventare una persona creativa ed innovativa. Il gioco, insomma, fa uscire le persone dalla banalità, nonostante il fatto che ad un certo punto, crescendo, “cominciamo a sentirci in colpa se giochiamo. Ci viene detto che non è produttivo, che è uno spreco di tempo, addirittura che è immorale […] Non abbiamo bisogno di giocare sempre per essere soddisfatti. La verità è che, nella maggior parte dei casi, il gioco è catalizzatore. Gli effetti benefici di un sano gioco possono diffondersi sulle nostre vite, rendendoci in realtà più produttivi e felici in ogni cosa che facciamo” (Ivi, p. 14).
Possiamo quindi concludere che, rispetto al gioco non d’azzardo, esistono tre tipi di persone: chi lo pratica, chi lo accetta (anche non praticandolo), e chi lo ritiene esclusivo terreno dei bambini (non riconoscendolo per gli adulti). È indubbio che pensando alla nostra carriera, al nostro fisico, alla nostra famiglia, e magari occupandoci sempre di più dei nostri genitori il gioco tenda ad allontanarsi da noi, a non essere più una priorità o un vero desiderio. O meglio, pensiamo di non aver più tempo per giocare. Brown ci ricorda che ormai “abbiamo interiorizzato a tal punto i messaggi della società che vedono il gioco come una perdita di tempo che ci vergogniamo a lasciarci andare […] a livello sociale, le persone che giocano sono considerate superficiali, fuori dal mondo reale, dilettanti o scansafatiche amorali” (ivi, p. 120, 122). Ed è proprio questo il punto, è proprio la paura di apparire sciocchi, indecorosi o stupidi nel momento in cui ci lasciamo andare al divertimento. È questo ciò che ci frena veramente, e frenare la fantasia potrebbe essere molto pericoloso. Ricollegandoci al discorso fatto anche da Giuliano, il gioco è esplorazione, ciò vuol dire che con il gioco si può andare in posti dove non si è mai stati e, attraverso esso, creare ironia. “Il mondo è pieno di umorismo, ironia, gioia e di oggetti apprezzabili a livello estetico. Il segreto è permettere a voi stessi di aprirvi a queste influenze, di vedere il lato ironico in ogni situazione. Le persone iniziano a trascurare il gioco nel momento in cui pensano di dover essere sempre serie, sempre produttive” (ivi, p. 170).
L’ultima definizione che vorrei riportare, perché di fatto una delle più recenti che conosco, è quella data da Emiliano Sciarra nel suo libro “Il simbolismo dei giochi” (definizione che fa eco ad un altro suo libro dal titolo “L’arte del gioco”): Il gioco è una forma d’arte in cui i partecipanti interagiscono attivamente prendendo decisioni secondo regole precise per perseguire un obiettivo finale dichiarato e variabile. (p.15). Sciarra lo sa benissimo, ma ribadiamo che esistono anche giochi che è possibile svolgere in solitario, quindi quando nella definizione leggiamo “i partecipanti” si intende anche un solo partecipante.
Non posso entrare ancora di più nel merito di tutte le definizioni riportate, quindi chiedo al lettore di sentirsi appagato di ciò che ho proposto. Sappiamo tutti quanto siano dure a morire le leggi sociali, i pregiudizi, soprattutto nel mondo dei social, dove chiunque condivide notizie e pensieri senza aver neanche testato di persona ciò che diffonde, ma spero di aver contribuito, con questi miei appuntamenti, anche solo a far insinuare un piccolo dubbio su chi ancora snobba il gioco e si rifiuta di vederlo come veicolo di socialità, solo perché esso crea ironia, divertimento e benessere pur essendoci arrivati senza il “sudore sulla fronte”.
In conclusione, possiamo affermare che il gioco NON d’azzardo è dunque tutto questo, e di conseguenza possiamo finalmente definirlo come un passatempo ludico non obbligatorio, da svolgere singolarmente, in coppia o in gruppo, mosso da regole certe e da esito incerto, in un contesto immaginato o riprodotto, il cui tradimento (ossia la sua conclusione) deve suscitare assuefazione ludica da parte di tutte le parti coinvolte. Per assuefazione ludica intendiamo l’obiettivo dei giocatori, ossia il motivo per il quale stiamo giocando. L’assuefazione è una sorta di estasi, di piacere, che si può provare giocando. Se non si prova piacere, se non si raggiunge cioè lo scopo (che può essere affettivo/emotivo, oppure materiale) allora non si è giocato. Questa definizione, figlia e sintesi di tutti i concetti espressi in tutti questi nostri incontri (ben undici!), è mia, e me ne assumo tutte le responsabilità. Tuttavia, le parole utilizzate, ossia “ludico”, ma anche “passatempo”, “obbligatorio”, “gruppo”, “tradimento” ecc. traducetele nel vostro linguaggio. Dategli voi un senso, trovate se volete voi una definizione, ma date valore a ciò che fate, non vergognatevi a dire che giocate, e fate vedere che il gioco non si frappone fra voi e la vostra felicità, ma che è anzi parte di essa, e quindi parte di noi.
Matteo Roberti
Di seguito riportiamo tutti i vari link agli altri articoli di “Il gioco: definizioni e concetti”:
#1: introduzione e proposte di definizioni di gioco
#4: tradimento, teoria dei giochi (Von Neumann, Aumann)
#5: utilità del gioco (Randolph)
#6: gioco come concetto (Randolph, Recla, Bateson)
#7: fasi della partita, scopo, giocatori, obiettivi
#8: fasi della partita, le strategie, le regole
#9: fasi della partita, tempo e sistemi di punteggio (Goffman)
#10: fasi della partita, struttura matematica del gioco (Dossena e Brown)