Women Talking, terza pellicola di finzione della regista canadese, tratta dal romanzo di Miriam Towes a sua volta prende ispirazione dai fatti avvenuti nella colonia Manitoba in Bolivia nel 2011, racconta la storia di sette donne chiamate a prendere una decisione fondamentale, non solo per loro, ma per tutte le donne della comunità, anche per quelle non ancora nate: restare o partire? Il film si apre con un’inquadratura d’impatto: l’immagine di una giovane donna che giace nel letto, con lividi e ferite sui i fianchi e all’interno delle cosce, segni evidenti di una violenza carnale. Presto le donne della colonia mennonita scoprono di essere state, per molti anni, violentate ripetutamente da uomini che controllavano le loro vite, sfruttando il completo stato di analfabetismo e di rigore religioso a cui erano sottoposte. Drogate di anestetici e regolarmente abusate, erano costrette a sopportare gravidanze indesiderate per generare figli, che, se maschi, avrebbero perpetrato le stesse violenze dei padri.
Un antefatto così potente pone sicuramente le basi per una storia altrettanto potente. Proprio per questo sette donne si riuniscono in un fienile per prendere questa drammatica decisione, esclusivamente femminile e femminista, seppur presenziata da un unico uomo, August (Ben Whishaw), l’insegnante del paese. Le opzioni sono: restare e combattere o andarsene.
August, ancora bambino, era stato allontanato dalla colonia assieme alla madre, la quale non accettava il dominio di quel sistema fallocentrico e misogino. Resta in disparte praticamente tutto il tempo della riunione, chiamato solo per mettere a verbale quanto viene espresso. Abbandonare l’unica terra conosciuta per abbracciare l’ignoto, significa sia horror vacui, paura di qualcosa perennemente pieno che non permette di trovare il proprio posto, sia timore di perdersi in un mondo che potrebbe essere ancora più terrificante di quello in cui vivono. Diventa fondamentale farsi le domande giuste: perché partire? È questo che chiede quasi retoricamente Ona (Rooney Mara) alla platea femminile. Partire non significa arrendersi, ma ripudiare la comunità che ha sfruttato il loro stato di inferiorità, indotto dalla privazione di conoscenza. Per gli uomini della colonia, lo stupro è” selvaggia immaginazione femminile”, riporta la voce narrante di una delle vittime più giovani, Autje. Se non è immaginazione è opera di Dio, che punisce le peccatrici, ma che allo stesso tempo regala loro il dono della gravidanza. Assurdità per noi spettatori, verità assolute per chi non è in grado di giudicarne il valore. Fin dove può spingersi la selvaggia immaginazione femminile? Certamente non fino al sanguinamento e alla mutilazione, quella non è immaginazione, è realtà e la realtà genera conoscenza. Sono la conoscenza e la certezza del fatto a stimolare l’azione delle donne, che non può prescindere dalla violenza. La voglia di vendetta è naturale e in questo Salome (Claire Foy) rappresenta tutte le donne, madri e figlie: sa che anche la figlia di quattro anni è stata barbaramente violata e un istinto omicida la porta a scagliarsi con i primi uomini che gli capitano sottomano.
La particolarità di Women Talking è che non vediamo nessun uomo ad esclusione di August, che pur colpevolizzandosi non appartiene alla stessa categoria dei cattivi, anzi assume fin da subito il ruolo di spettatore e invitato speciale e, quasi sottomesso alla platea femminile, è relegato al ruolo di scrivano. Noi odiamo gli uomini attraverso i racconti delle donne, pur non vedendoli in azione. Questo forse rende debole il ruolo dei “cattivi” che non possiamo odiare fino in fondo se non vediamo di cosa sono capaci.
Più che canalizzare l’odio verso un nemico (comunque costantemente citato), la regista canadese ha voluto creare un convivio di donne in cui il dibattito su come reagire a ciò che è accaduto, fosse il vero tema della storia. Difatti scegliere, diventa più importante di cos’ è successo.
Nell’esplorare i punti di vista delle sette donne (interessanti, ma spesso ridondanti) il film rischia di essere esclusivamente didascalico, tralasciando lo scopo principale di ogni racconto cinematografico, ossia emozionare. Sembra quasi più un documentario che un’opera di finzione, in cui sette donne espongono il loro punto di vista femminile e femminista in generale, soffermandosi molto poco sul dolore provato. Quasi non sembrano interessate a parlare tra di loro, ma molto più attirate dal desiderio di insegnare qualcosa a chi le sta guardando. Sono rivolte troppo al pubblico e poco al loro dolore, così facendo lo spettatore mantiene la soglia dell’attenzione alta ma per il motivo sbagliato, non perché coinvolto dalla storia, ma per la paura di essere interrogato da quelle professoresse.
Ciò si ricollega ad un’altra stortura che lascia quantomeno perplessi: le donne in questione ragionano e soprattutto parlano da accademiche che hanno passato la vita a studiare Simon De Beauvoir e a leggere i libri di Dacia Maraini, nonostante ignorino qualsiasi cosa non sia Dio e lavori domestici. Forse l’intenzione della Polley, facendo parlare delle contadine mennonite come delle professoresse universitarie, era quella di dimostrare come quei pensieri e giudizi appartengano a tutte le donne, indipendentemente dalla classe sociale e dal titolo di studio. Un’idea certamente nobile, ma poco credibile per un racconto cinematografico.
Dall’altra parte il confronto tra le donne, tutte sulla stessa linea gerarchica che siano bambine o anziane, stimola la riflessione e pone lo spettatore difronte a diversi tipi di “femminismo”. La voglia di vendetta di Salome è assimilabile al desiderio amazzone di certe eroine del secolo scorso come la Krupskaia o Rosa Luxemburg, che non disdegnavano la violenza come strumento di emancipazione. Salome è una Medea al contrario, che punisce i padri per aver violentato i figli e non vede altra strada alla vendetta (difatti è uno, se non l’unico personaggio, che esprime sinceramente il suo dolore senza il desiderio nascosto di catechizzare). Proprio per questo motivo Salome vorrebbe partire: rimanere vorrebbe dire uccidere (non c’è altra soluzione per lei) e macchiarsi di un peccato troppo grande; dunque, partire è necessario per non compromettere sé stessa e la sua integrità.
La razionalità esistenzialista, espressa con estrema tranquillità, di Ona è in qualche modo assimilabile al pensiero della già citata De Beauvoir: Ona interroga sé stessa e le altre su quanto sia colpa dell’uomo o della colonia stessa che ha reso gli uomini bestiali. La sua posizione iniziale è ambigua, dato che non sa cosa aspettarsi dal mondo fuori dalla colonia, quindi, vorrebbe restare e provare a cambiare le cose (pur senza la violenza espressa da Salome) per il bambino che porta in grembo. A poco a poco, però, la sua voglia di lasciare tutto e partire diventa assimilabile alla visione della filosofa francese che, riprendendo un concetto di Heidegger affermava che “Esistere è osare gettarsi nel mondo”. Ona è sostanzialmente la leader spirituale e intellettuale del gruppo, figlia di un femminismo moderno che non vede il male assoluto nell’uomo ma nella società (come la De Beauvoir appunto). Difatti per lei, il figlio che porta in grembo, sebbene frutto di una violenza, è degno di essere amato più di ogni altra cosa perché esente da colpe.
La visione di Mariche (Jessie Buckley), invece, è permeata da un profondo nichilismo e da un’accettazione quasi annientante. Mariche odia tutti, disprezza August in quanto uomo, ma non vorrebbe per nessun motivo abbandonare la colonia, poiché significherebbe abbandonare la sua famiglia, la quotidianità e l’unico mondo che conosce. Proprio per questo arriva quasi a preferire quella condizione di inferiorità. Niente può davvero cambiare e quel mondo non può essere abbandonato.
Il fatto che non si vedano nemici rende il film un po’troppo poco credibile, soprattutto non c’è niente che si opponga alla scelta delle sette donne, non c’è nessun tipo di ostacolo dato che in pochissimo tempo organizzano la partenza e nessuno tenta di fermarle. Se pensiamo al sistema controllante della colonia, è poco probabile che vengano lasciate libere di organizzarsi e di scappare senza trovare una ben che minima opposizione.
La Folley, ricordando il Sidney Lumet di “Twelve Angry Men” in cui dodici giurati erano chiamati a giudicare un caso di parricidio sulla base di “un ragionevole dubbio”, ha cercato di rendere lo spettatore parte integrante di quell’assemblea femminile. Difatti la macchina da presa scivola lentamente all’interno del fienile tra le sette protagoniste che discutono su cosa fare, direzionando la nostra attenzione prima su un’oratrice poi su un’altra. Come August siamo visitatori indesiderati che prendono parte ad una lezione di filosofia che contrappone le varie scuole di pensiero. Il problema è che da quel fienile non possiamo uscire, siamo costretti a rimanere lì, soffocando sotto il peso nozionistico di tutto quel dolore con cui difficilmente entriamo in empatia.
Sebbene siamo in aperta campagna il film è claustrofobico non solo per l’atmosfera grigia e opprimente (frutto di una fotografia gradevole e funzionale alla storia) ma soprattutto per la mancanza di azione. Tutto viene spiegato e poco viene mostrato.
I dialoghi, che hanno permesso alla Polley di sollevare l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale, sono anche fin troppo brillanti per raccontare tutto quel dolore. L’azione ha più potere espressivo della parola che, in “Women Talking”, viene elevata a strumento supremo di comunicazione per dare un messaggio bellissimo ma senz’anima.
Tuttavia, la bellezza di “Women Talking” sta proprio nel suo intento primario: creare anziché distruggere, sebbene sia quasi impossibile, di fronte a tanto dolore, evitare qualsiasi istinto alla distruzione. Nasce come film sull’odio e finisce come film sull’amore; amore per i figli, amore per Dio, amore per la propria terra, ma soprattutto amore per sé stesse, che probabilmente quelle donne non avevano mai provato. Difatti l’amore per sé stesse sta proprio nella scelta di partire. Lasciare tutto e perdersi nel mondo, abbandonando la propria terra e i figli più grandi perché ormai corrotti dai padri, è il più grande gesto d’amore per sé stesse che possano fare.
Sara Polley ha scelto di raccontarcelo a suo modo, un po’ troppo didascalico e un pizzico retorico, svuotando un contenuto forte di un’emozione altrettanto forte, dando rilevanza più al messaggio che all’anima del film. Ha scelto il suo modo di raccontare una storia che poteva essere raccontata in altri mille modi possibili, così come le donne del film potevano scegliere di restare e combattere invece di partire. Scegliere muove il mondo e questo è ciò che “Women Talking”, con i suoi pregi e i suoi difetti, ha cercato di raccontarci.