Ostacolo, urto, opposizione: ciascuno di questi termini sembra proiettarci verso uno scenario negativo e instabile, che fa paura. Eppure, qualcosa può farci cambiare idea. Per farlo, proviamo a fare un passo indietro. Anzi, forse di più.
Proviamo a tornare nella Germania di fine ‘700, nella splendida cittadina di Jena, culla delle grandi menti dell’idealismo tedesco. Proviamo ora a soffermarci su un filosofo straordinario, Johann Gottlieb Fichte, e su una sua grande opera, La dottrina della scienza.
Ora che siamo entrati in punta di piedi in questa magnifica e remota atmosfera, senza scendere nei particolari dei più alti principi speculativi e teoretici, mettiamoci comodi e cerchiamo di capire ciò che ci ha condotti a bussare alla porta di questo pensatore e perché no, a filosofeggiare un po’. Ebbene, al cuore della filosofia di Fichte troviamo due principi: un Io e un Non-io. L’io è un principio assolutamente incondizionato, un primum metafisico, che ci pone di fronte alla necessità del pensare e al mondo in sé. Questo Io, primo principio autopostosi, contrappone a sé un Non-io. Quest’ultimo, principio antitetico all’Io, non è altro che la realtà che lo circonda nella sua varietà. Abbiamo quindi un principio soggettivo, un Io, concetto primo ed uguale a sé stesso e un mondo, che sta là, fuori. Dati questi due principi, definibili anche come tesi e antitesi del movimento dialettico, ecco il momento essenziale, cruciale: il riconoscimento dell’Io e la sintesi.
Dunque, dopo aver menzionato concetti e principi, chi sarebbe in fondo questo Io? Come può avvenire il riconoscimento dell’Io, come può conoscersi una volta posta un’alterità di fronte a sé, un mondo dato? E qui arriva il bello. Il bello si chiama Anstoss, ossia urto. L’io, trovatosi a confronto e scontro con un principio a sé opposto, può concludere il momento finale della sintesi e portare a termine il suo riconoscimento solo sperimentando l’urto. Solo l’urto, solo l’esistenza di un Non-io, possono portare al ritorno dell’Io in sé stesso e al suo riconoscimento. Parliamoci chiaro: l’Io capisce chi è solo quando si trova davanti quella particella negativa, quell’ostacolo, quell’urto. Solo quando l’io si scontra capisce chi è e può finalmente conoscersi, ri-conoscersi.
Mi perdonerete per questo tuffo nel passato, per aver volteggiato tra concetti a volte astrusi e principi complessi, su cui ci sarebbero ben altre analisi da fare. Ma era esattamente sul cuore del ragionamento fichtiano che desideravo porre l’accento. Lasciamo la metafisica e la teoria e arriviamo all’anima. Perché sì, credo che questo sia in fondo il compito della filosofia, a sua missione nel mondo oltre la sua apparente astrattezza e teoreticità: entrare nel vivo dell’animo umano.
Insomma, siamo tutti un Io, quell’Io. E non solo abbiamo un Non-io che si contrappone a noi nella complessa e molteplice realtà del mondo esterno, nella cruda datità del reale, ma un Non-io che si contrappone a noi nella nostra più intima e profonda soggettività. Ci troviamo a convivere e combattere con una realtà meravigliosa e a tratti feroce, pericolosa. Ma ancora di più, forse, ci troviamo a convivere e combattere con un Non-io che è dentro di noi, ancor più pericoloso, a volte tiranno di noi stessi. E spesso ci sentiamo persi, soli, inadeguati. Fermi. Bloccati, di fronte agli ostacoli dentro e fuori di noi, incapaci di trovare la strada giusta o, forse, di sentirci giusti. Ma quell’ostacolo in fondo è la via da seguire, non da aggirare. Scontrarci con quel negativo, confrontarci con esso al costo dell’urto -anche del più forte – è la chiave per tornare in noi, per trovare nuovamente la strada e, semplicemente, aprire nuovamente la porta a noi stessi. L’urto del nostro io è l’unica via per comprendere veramente chi siamo e chi vogliamo essere, il punto di partenza di un Io libero, consapevole, autentico. E la sofferenza dell’urto è il momento della più alta consapevolezza del sé, è la possibilità intima e ultima di cambiare, di rinascere. Ci dona occhi nuovi per guardare dentro di noi e l’altro che è di fronte, per tenderci una mano, mettendo insieme i pezzi e aggiustando le crepe. L’ostacolo è, in ultima istanza, la spinta necessaria per superarci, per trovarci e ri-trovarci. E per quanto fragili pensiamo di essere, per quanta forza ci sembra mancare nell’affrontarlo, per quanto lo scontro sia forte, non c’è da avere paura.
In Giappone un’antica pratica vuole che un vaso, delicato e fragile, rotto a causa di un urto, venga riparato con l’oro più puro che ne vada a saldare i pezzi. L’oro evidenzia l’urto, ne vuole ricordare le ferite e dà incredibile valore e nuova vita al vaso. Non temiamo di cadere, non temiamo la fragilità, mostriamola. Mettiamo insieme i pezzi senza paura, copriamo d’oro le cicatrici che non sono il segno di un difetto, di una fragilità, ma solo il segno di una profonda consapevolezza e di un percorso faticoso e coraggioso: la ricerca di noi stessi.
Martina Buccilli