Negli ultimi decenni, i progressi nella psicologia sperimentale, nella neurobiologia, nella psicoanalisi, nella ricerca sullo sviluppo e sulle emozioni, hanno condotto a modi nuovi ed interessanti di concettualizzare la regolazione affettiva e il suo ruolo nella salute e nella malattia. Nel panorama delle ricerche si nota l’ampia rilevanza assunta dal costrutto dell’alessitimia. In quanto disturbo della regolazione affettiva, l’alessitimia offre un interessante vertice di osservazione sulle importanti interazioni esistenti tra emozioni, cognizione, relazioni precoci di attaccamento e salute mentale.
Il costrutto dell’alessitimia è stato definito nei primi anni ‘70; le sue origini sono radicate nelle osservazioni cliniche effettuate inizialmente su pazienti con disturbi psicosomatici e, successivamente, anche su differenti popolazioni mediche e psichiatriche. Si deve a Sifneos il primo studio sistematico di questa costellazione di caratteristiche psicologiche e fu lui a coniare, nel 1973 il termine “alessitimia” per indicare “un disturbo specifico nelle funzioni affettive e simboliche”, spesso presente nei pazienti psicosomatici.
Alessitimia deriva dal greco “a”(alfa privativo), per mancanza, “lexis” per parola, e “thymos” per emozione; letteralmente “mancanza di parole per le emozioni”, che va ad indicare una sorta di “analfabetismo emozionale”, una spiccata difficoltà nel riconoscere, esplorare ed esprimere i propri vissuti interiori.
Esiste un largo un consenso in letteratura sulla definizione di alessitimia, che si caratterizza per:
- difficoltà di identificare i sentimenti e di distinguerli dalle sensazioni somatiche;
- difficoltà nel descrivere e comunicare emozioni e sentimenti alle altre persone;
- processi immaginativi limitati;
- stile cognitivo orientato esternamente.
Ci si riferisce quindi a un deficit “sia nel dominio cognitivo-esperienziale dei sistemi di risposta emotiva sia al livello della regolazione interpersonale delle emozioni” (Taylor, Bagby, & Parker, 1997/2000).
Questi due aspetti fondamentali del costrutto necessitano di essere colti nel loro stretto ed indissolubile collegamento: in quanto incapaci di identificare e di “dare un nome” ai propri sentimenti soggettivi, le persone alessitimiche presentano difficoltà a comunicare verbalmente agli altri il proprio disagio emotivo e sono impossibilitate ad usare le altre persone come fonti di conforto, di tranquillità, di feedback, di aiuto nella regolazione dello stress. La povertà della vita immaginativa limita, inoltre, la loro possibilità di modulare l’ansia e le emozioni negative in genere, mediante i ricordi, le fantasie, i sogni ad occhi aperti, il gioco.
L’incapacità nel verbalizzare le proprie emozioni non può essere considerata quindi come una difficoltà di tipo esclusivamente espressivo ma come una vera e propria limitazione nella possibilità di elaborare le emozioni e di costruire un proprio mondo interno (Ricci Bitti & Caterina, 2001).
Nel modello cognitivo-evolutivo delle emozioni elaborato da Lane e Schwartz (1987), i soggetti alessitimici si troverebbero ai primi stadi (“sensomotori”) di organizzazione e consapevolezza delle esperienze emozionali. Queste vengono sperimentate essenzialmente a livello di sensazioni corporee e di tendenza all’azione; l’esperienza “psicologica” delle emozioni è limitata e poco sofisticata, le descrizioni verbali risultano sovente stereotipate, con una scarsa consapevolezza della complessità e multidimensionalità delle proprie esperienze emozionali. In particolare i soggetti alessitimici mostrano una tendenza all’espressione somatica delle emozioni e una ridotta capacità di sperimentare empatia. Se l’alessitimia implica l’incapacità o l’impossibilita di percepire le proprie e le altrui emozioni, l’empatia definirebbe, al contrario, l’abilità che consente alle persone di entrare in sintonia con i propri e con gli altrui stati d’animo. Non a caso tale abilità si basa sull’autoconsapevolezza: quanto più si è aperti verso le proprie emozioni, tanto più si è abili nel leggere i sentimenti altrui. Questa capacità consente di capire come si sente un’altra persona ed entra in gioco in moltissime situazioni, da alcune tipiche della vita professionale a quelle della vita privata. La capacità empatica permette di leggere e capire non solo le emozioni che le persone esprimono a parole, ma anche quelle che, più o meno consapevolmente, si esprimono con il tono di voce, i gesti, l’espressione del volto e altri simili canali non verbali.
Esistono relazioni e sovrapposizioni chiaramente visibili tra l’alessitimia e altri costrutti quali l’ “Intelligenza Emotiva” di Goleman (1995/1996) e l’ “Intelligenza intrapersonale” di Gardner (1993). Gli stessi Parker, Taylor, & Bagby (2001) sottolinearono la sovrapponibilità concettuale fra alessitimia e intelligenza emotiva.
Al contrario degli “alessitimici”, gli individui “emotivamente intelligenti”, mostrano una buona autoconsapevolezza emotiva, sono capaci di riconoscere precocemente i segnali fisiologici che accompagnano l’emozione, e presentano capacità di introspezione e autoregolazione.
Questi non tendono a reprimere i loro vissuti (che continuerebbero comunque a produrre i loro effetti), ma si muovono in direzione di una gestione adattiva e efficace delle emozioni mediante un’attribuzione di significato a ciò che gli accade, resa questa possibile dalla mediazione operata dal linguaggio con cui definiamo quello che proviamo. Questa operazione è fondamentale in quanto dota di senso l’esperienza emozionale, la arricchisce con la “valutazione” cognitiva (ad esempio in termini di novità, pericolosità, capacità di farvi fronte, possibili risposte, relazione con i propri valori e le norme sociali), la mette in relazione più saldamente con i propri vissuti e con la storia soggettiva, e consente la comunicazione interpersonale.
Numerose ricerche hanno dimostrato come la comunicazione emotiva interpersonale abbia benefiche ricadute sullo stato di salute dell’individuo (ad esempio in presenza di lutti e situazioni traumatiche) in quanto fornisce protezione contro gli “effetti a lungo termine” del disagio emozionale; dando la possibilità di rivivere, rievocare, condividere e quindi, in qualche modo, “sistemare” le emozioni (Pennebaker & O’Herron, 1984; Rimé,1989; come citato in Ricci Bitti & Caterina).
Diverse altre caratteristiche si sono rivelate spesso associate all’alessitimia, pur non facendo parte del nucleo centrale del costrutto: la tendenza al conformismo sociale, la tendenza all’azione per la gestione delle tensioni e dei conflitti, una certa povertà nell’espressione facciale delle emozioni, la difficoltà nel ricordare i sogni o materiale onirico caratterizzato da pochi dettagli visuo-immaginativi. Bisogna sottolineare che l’alessitimia non è concettualizzata come un fenomeno categoriale (del tipo “tutto o niente”), ma come un costrutto dimensionale (o tratto di personalità) che è distribuito in modo normale nella popolazione generale. (Taylor & al., p.31).
Oltre che come tratto di personalità relativamente stabile, l’alessitimia può emergere come fenomeno secondario, come stato reattivo in conseguenza di gravi traumi o di malattie particolarmente invalidanti o in cui c’è pericolo di vita (cancro, dialisi, trapianto); in momenti particolarmente critici dell’esistenza “l’anestesia emozionale” sembra avere finalità adattive, rappresentando cioè un poderoso meccanismo di difesa verso la propria realtà interiore fonte di sofferenza.
Quello dell’alessitimia (e più in generale dei problemi della regolazione affettiva) è un ambito di studio interessante e, secondo alcuni studiosi, per certi versi persino “rivoluzionario”, in quanto:
- fornisce una nuova chiave di lettura del disagio psichico (come conseguenza di un deficit dello sviluppo affettivo), e mette in luce la necessità di rivedere i classici modelli concettuali psicoanalitici (basati sulla concezione del sintomo come manifestazione di conflitti intrapsichici irrisolti);
- approfondisce e problematizza l’importante influenza dei legami di attaccamento, sul “funzionamento della mente” e nel corso dell’intero ciclo vitale;
- evidenzia la connessione profonda e quasi inscindibile esistente tra affetti e cognizione, e come le emozioni, anche se radicate nella biologia, includano una fondamentale dimensione cognitiva e soggettivo-esperienziale;
- l’alessitimia si presenta come una dimensione transnosografica, potenzialmente in grado di spiegare caratteristiche, problematiche e difficoltà di trattamento di molte condizioni psicopatologiche.
Esistono studi che mostrano come il costrutto sia in correlazione con altri costrutti di interesse psicologico, e che forniscono una conferma indiretta della validità della concettualizzazione.
Costa e coll. (1999), Mastrobuoni e coll. (2000), e Verissimo e coll (1999) riportano dati correlazionali a supporto del legame fra l’alessitimia e locus of control. Così come Crittenden (1994) e Zimmerman (1999) fanno risalire l’alessitimia alle precoci relazioni d’attaccamento, e in particolare alle diverse forme di attaccamento insicuro; evidenze fornite anche da Solano, De Gennaro e Pecci (2000) che hanno riscontrato punteggi di alessitimia significativamente più alti in soggetti con stili d’attaccamento insicuri.
Si assiste nella società moderna, e soprattutto in quelle culture occidentali così fortemente orientate verso il materialismo come espressione unica della soggettività, a una drammatica perdita della dimensione affettiva positiva e condivisa, in luogo di meccanismi regolatori terzi, e di una modalità di espressione degli stati emotivi sempre più rivolta alla semplificazione e all’agito.
Lo studio dell’alessitimia assume quindi, nell’odierna ricerca in psicologia, un particolare valore nell’ottica del disvelamento delle dinamiche eziopatogenetiche di tutti quei disturbi che attengono alla sfera emotiva, della regolazione degli affetti, e dell’intersoggettività vista come fattore di sviluppo e base relazionale.
Walter Bardino – Psicologi in Ascolto
Bibliografia
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