Le dipendenze patologiche. Dall’attrazione al desiderio

Con l’espressione dipendenza patologica si definisce una forma morbosa determinata dall’uso distorto di una sostanza, di un oggetto o di un comportamento; una specifica esperienza caratterizzata da un sentimento di incoercibilità e dal bisogno coatto di essere ripetuta con modalità compulsive, in cui siano presenti i fenomeni del craving, dell’assuefazione e dell’astinenza. 

La ricerca di sostanze o di comportamenti capaci di rendere più efficaci le prestazioni intellettuali e fisiche ma nasconde, da sempre, il sogno umano di realizzare il superamento dei limiti e dell’angoscia sperimentata nel corso della vita. Questa ricerca, non costituisce di per sé la precondizione per lo sviluppo della dipendenza patologica, in quanto si tratta di un fenomeno universale che appartiene alla lotta dell’uomo per l’esistenza e alla necessità di riconfermare in ogni istante la prevalenza della vita sulla morte. Alcune persone, però, diventano dipendenti da questa ricerca fino al punto di perdere la capacità di badare a sé stesse e di non avere più una normale interazione dinamica con la realtà. Peele, nel suo The Meaning of Addiction, evidenzia come la dipendenza possa scaturire da qualsiasi esperienza il cui scopo sia di alleviare il dolore, l’ansia o altri stati emotivi vissuti come negativi, attraverso una diminuzione della coscienza o un innalzamento della soglia di sensibilità. Tutti i comportamenti da dipendenza sembrano essere accompagnati da qualche forma di craving (letteralmente fame, brama), ovvero un’attrazione così forte verso alcune sostanze o comportamenti, tale da determinare una perdita del controllo e una serie di azioni obbligatorie volte alla soddisfazione del bisogno.  

Lesieur sostiene che non si possa parlare di mera ricerca del piacere ma piuttosto della creazione di un’esperienza dissociativa transitoria che permette al soggetto di uscire temporaneamente dalla sua realtà per risolvere una condizione di disagio persistente e per percepirsi in modo più positivo. I fenomeni micro/macro dissociativi devono essere letti come situati lungo un continuum che va dal normale al patologico. L’elemento comune sembra essere il ricorso a esperienze di isolamento di fronte a una realtà causa di tensioni e angosce. Steiner definisce tali esperienze di isolamento “rifugi della mente” e ne sottolinea una funzione sia difensiva che integrativa nel rapporto con la realtà che non è né completamente accettata né completamente ripudiata. Il rifugio, tuttavia, può arrivare a diventare un’attitudine talmente regolare da non costituire più un involucro transitorio, fino a sostituire il rapporto con la realtà. In questa dinamica trionfa l’onnipotenza, nella fantasia degli scenari e delle sensazioni interiori si perde ogni limite e tutto diventa permesso e possibile.  

Chi fa ricorso all’abuso di sostanze, dunque, spesso è come se mettesse in atto un tentativo di autocura; la “cura” viene quindi ad essere collocata simbolicamente nella classe emozionale dell’onnipotenza. Questo è un aspetto importante da tenere in considerazione nella terapia con pazienti dipendenti. Il terapeuta che ripropone la cura, per esempio proponendo quale fine dell’intervento l’eliminazione della sostanza dalla vita della persona che a lui si rivolge, se non sviluppa una prospettiva di cambiamento rispetto a tale dinamica, rischia di diventare per il tossicodipendente anch’esso un oggetto che si può controllare in maniera onnipotente.  

Con il comportamento dipendente molto spesso viene espressa una grande difficoltà a stare nei rapporti e a sviluppare appartenenze sentite come produttive. Si assiste a una sostituzione del desiderio con il godimento, perseguito attraverso la relazione con l’oggetto (la sostanza o un comportamento). Desiderare, al contrario, è un evento mentale che confronta con i limiti della realtà. L’etimo del termine rimanda al “togliere lo sguardo dalle stelle” (de-sidera), quindi all’abbandonare le fantasie onnipotenti che illudono d’essere Dio, per accettare il limite del proprio operare e la relazione con la realtà. In questo senso, è importante orientare l’intervento psicologico con pazienti dipendenti all’esplorazione dei significati soggettivi che il rapporto con la sostanza ha assunto e continua ad assumere nelle loro vite. Non si può perseguire dunque, alcuna guarigione, apprendimento o modificazione comportamentale, ma questi potranno essere effetti secondari e non sempre prevedibili della rinnovata capacità di attribuire senso alle relazioni, uscendo dalla ripetitiva codificazione simbolica di tipo difensivo ed organizzando così il proprio rapporto con la realtà in maniera più funzionale. Se il paziente non è un soggetto curato, che viene “guarito” in modo passivo, ma soggetto agente, che si deve premurare attivamente di capire e di cambiare, un importante obiettivo riguarda la possibilità di sostenere il riconoscimento della propria implicazione nel progetto terapeutico, condiviso con il terapeuta e in connessione con i servizi territoriali presenti. Questo rappresenta già un intervento ad alta valenza trasformativa in quanto ciò che si condivide nella relazione riguarda proprio il recupero della capacità stessa di progettarsi, tollerando la condizione depressiva di perdita dell’onnipotenza ad essa connessa.  

 

Bibliografia:

Caretti V., La Barbera D. (2005). Le dipendenze patologiche. Clinica e psicopatologia. Raffaello Cortina Ed., Milano. 

Carli, R. (2011). Divagazioni sull’identità. Rivista di Psicologia Clinica n.2  

Henry R. Lesieur , “The Compulsive Gambler’s Spiral of Options and Involvement,” Psychiatry: Journal for the Study of Interpersonal Processes, 42:81-82 (Feb. 1979) 

Mucelli, R. Masci, G. (1996): “Tossicodipendenze: curare, guarire, assistere. Lo Psicologo Clinico al lavoro” Angeli, Milano. 

Peele, S. (1985). The Meaning of Addiction. Lexinton Book , Lexinton Massachusetts-Toronto  

Steiner, J. (1993). I rifugi della mente. Tr. it. Boringhieri, Torino 

 

Elodie Rossi di Psicologi in Ascolto

 

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