Le diagnosi improprie di DSA e i bisogni educativi speciali

In questo articolo diamo uno sguardo al tema delle diagnosi improprie di Disturbo Specifico dell’Apprendimento.

Gli studi internazionali indicano che sono circa il 4-5% dei bambini della popolazione scolastica a soffrire di questi disturbi. Tuttavia in Italia, il dato, dall’approvazione della legge 170 in poi, è in costante aumento, arrivando in alcune regioni (come l’Emilia Romagna) anche al 10 %, mentre in altre (prevalentemente al Sud) il fenomeno è sottostimato e/o quasi ignorato.

Già questa eterogeneità indica come il fenomeno DSA non abbia una lettura univoca e debba essere ulteriormente indagato.

3486677908_894ec5ef56_zSu questa eterogeneità, attualmente, c’è un grande dibattito con i professionisti di settore che si dividono in fazioni opposte, tra chi afferma che il dato è in aumento perché adesso c’è la giusta attenzione e chi denuncia che è un modo per far accedere i ragazzi con comuni, ma talvolta gravi, difficoltà agli ‘sconti’ e alle ‘facilitazioni’ della legge 170.

La questione è importante, tenendo conto che una valutazione precoce, ossia nella fascia d’età tra i 7 e i 9 anni, è fondamentale per avviare interventi efficaci soprattutto in riferimento alla Dislessia.

Confondere una difficoltà di apprendimento con un DSA deriva dal fatto che le valutazioni diagnostiche non derivano da esami medici ‘obiettivi’ (l’eziologia definita di tali pervasivi disturbi ancora non c’è), ma dipendono (una volta esclusi ritardi e patologie organiche) dalla misurazione delle prestazioni dei bambini nella lettura, nel calcolo e nella scrittura: prestazioni confrontate con una campione di riferimento di bambini che questi disturbi non ce l’hanno.

Per tale motivo, le linee guida della Consensus Conference indicano chiaramente l’importanza di una osservazione globale della condizione del bambino nel momento della valutazione. Tuttavia questo può non accadere per vari motivi, portando a sottostimare variabili che porterebbero a necessarie diagnosi differenziali rispetto ad una medesima prestazione al di sotto della norma.

E non si può sottostimare l’impatto di una diagnosi di DSA sul minore e sulla famiglia: tale diagnosi (che rimanda a deficit di origine neurologica) può ‘costruire’ un’identità negativa che ha un effetto iatrogeno sul bambino, il quale ovviamente deve adattarsi e adeguarsi a questa nuova identità disfunzionale.

Ne è il più classico esempio, il caso di bambini che per i più svariati motivi hanno difficoltà di apprendimento che hanno un’origine affettiva e relazionale e che vengono velocemente e superficialmente etichettati come DSA, un po’ per moda, un po’ per l’eccessiva ansia (e mancanza di tempo) dei genitori, un po’ perché ci sono una miriade di professionisti privati che su questo fenomeno, di fatto, ci campano e si ‘iperfocalizzano’ (in buona fede) sulle difficoltà scolastiche ignorando altri aspetti fondamentali.

Tuttavia, può succedere anche che la diagnosi di DSA sia usata in modo totalmente improprio ‘a fin di bene’: ossia per bambini e ragazzi con grandi difficoltà legati all’integrazione sociale e culturale al fine di consentire loro l’accesso a Piani Didattici Individualizzati più flessibili ed evitare bocciature e ritardi che influirebbero negativamente sulla loro vita. 

Tuttavia è un’iniziativa impropria, soprattutto alla luce della Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolasticache consente di attivare percorsi didattici individualizzati anche in assenza di certificazione medica attraverso l’iniziativa diretta dei docenti per bambini in situazione di svantaggio socio-economico e linguistico.

Ma la distanza tra normativa e la realtà, in Italia, è sempre ampia e il recepimento delle direttive ministeriali più difficoltoso del previsto. Capita così che vengano fatte diagnosi di DSA a ragazzi di seconda generazione atipica (ossia che vivono in modo pendolare tra il paese di origine dei genitori e l’Italia) che hanno problemi più generali legati all’integrazione sociale o a ragazzi arrivati da poco in Italia attraverso le adozioni internazionali che affrontano l’apprendimento dell’italiano come seconda lingua.

Come se gli insegnanti, attraverso la ‘sanitarizzazione’ di determinate difficoltà, si sentissero più legittimati ad essere flessibili.

Ad esempio, i ragazzi adottati arrivano a scuola sprovvisti di una palestra ‘naturale’ e ‘giocosa’ dove imparare quella che per loro è una seconda lingua e si trovano di fronte ai duri testi di grammatica, difficili anche per i bambini madrelingua. Ma mentre quest’ultimi hanno avuto molti anni per imparare l’italiano in contesti familiari e affettivi (e una nuova lingua si impara attraverso stati emotivi ‘rilassati’ in situazioni pratiche di vita), i ragazzi adottati, in assenza di attività laboratoriali e didattiche individualizzate, si ritrovano semplicemente dentro curricula ordinari, un po’ messi da parte (gli insegnanti devono pensare al resto della classe), un po’ parcheggiati, con la fretta di recuperare il gap linguistico, spesso attraverso strumenti e metodologie inadeguate.

Una lingua, infatti, si impara primariamente ‘abitandola’ (pensiamo a come si impara l’inglese, ossia vivendo e praticando la lingua) e non seguendo i libri di grammatica.

In assenza di una strutturazione flessibile e specifica della didattica, che richiederebbe più insegnanti e più attività, i ragazzi spesso si trovano a dover ‘correre’ per raggiungere le prestazioni dei pari età di madrelingua italiana e qui può arrivare la ‘protettiva’ (e impropria) diagnosi di DSA per ‘salvarli’. Diagnosi che al tempo stesso li chiude in categorie che non rappresentano effettivamente la loro situazione.

Al contrario, queste diagnosi possono diventare profezie che si autoavverano e questi ragazzi, trattati da DSA, lo diventano, soprattutto se famiglia, scuola ed educatori, non riconoscono l’utilizzo strumentale di questa ‘etichetta’ in cui le loro competenze vengono confrontate tout court alle prestazioni di pari età madrelingua.

Tuttavia il processo di implementazione dei BES senza certificazione medica per situazioni di disagio psicologico, sociale e linguistico si sta diffondendo, ma ci vuole tempo, e soprattutto ci vorrebbero delle risorse che tutt’ora mancano sia per una vera individualizzazione della didattica, sia per l’aggiornamento professionale del corpo insegnante, spesso avvisato di queste innovazioni più dalle associazioni di genitori e dai professionisti privati, che da corsi preposti a questo.

Questo processo di rinnovamento è essenziale, soprattutto alla luce del fatto che le famiglie italiane composte solo da stranieri sono ormai oltre 1 milione e 300mila e i minori hanno quasi raggiunto quota 1 milione, dieci volte più dell’inizio degli anni Novanta, di cui molti nati in Italia da genitori immigrati e oltre 800mila di loro occupano un banco nelle nostre aule scolastiche (fonte ISTAT 2014).

Recentemente sono state pubblicate anche le linee di indirizzo per il diritto allo studio degli alunni adottati pubblicate dal MIUR nel 2014 che definiscono i bisogni speciali di questi e le caratteristiche di una didattica che tenga conto della specificità della loro situazione senza dover  ‘patologizzare’ la loro condizione.

Queste azioni normative offrono il riconoscimento di queste specifiche difficoltà senza dover chiamare in causa la certificazione di una disabilita cognitiva: in altre parole offrono nuove possibilità d’essere in difficoltà.

Come detto, le scuole fanno ancora difficoltà a recepirle e ad attuarle, ma il fatto che esistano, così come è stato per la legge 170, offre attualmente la possibilità quantomeno di indicare diritti altrimenti invisibili.

Tutto questo, mentre siamo in attesa che ci sia un rinnovata attenzione ‘economica’ a questi nuovi compiti cruciali, eppur ignorati, che la scuola ogni giorno deve perseguire.

Edgardo Reali

 

Foto articolo di The Green Party of Ireland Comhaontas Glas  (CC License/Flikr)

Foto in evidenza di Lorenzo Schiavi (CC BY-SA 2.0)