Il lungometraggio del regista Giulio Manfredonia, con Claudio Bisio, Giuseppe Battiston,Giorgio Colangeli e Anita Caprioli
Scarti che usano scarti per creare bellezza, perché tutto quello che è considerato rotto non deve necessariamente essere riparato o buttato via, ma può essere riutilizzato per creare un mosaico armoniosamente imperfetto, formato da altri tasselli irregolari. “Si può fare”(2008), terzo lungometraggio di finzione di Giulio Manfredonia, cerca di raccontare proprio questo e lo fa attraverso la storia di Nello (interpretato da un ottimo Claudio Bisio che riesce a sfumare un personaggio complesso come nelle sue più importanti collaborazioni con Salvatores), un sindacalista che nella Milano degli anni’80 si ritrova, quasi per caso, a coordinare una cooperativa di pazienti dimessi dai manicomi dopo l’entrata in vigore della Legge 180.
Nello è un politico d’avanguardia, anche troppo per il proprio sindacato, e allo stesso tempo è un marito poco presente e non particolarmente interessato alla vita della moglie, perché troppo concentrato sulle sue battaglie. Nello, pur non avendo alcuna competenza in termini di salute mentale, riesce ad entrare, non senza difficoltà, quasi subito in contatto con quella allegra combriccola di “matti” (interpretati da attori convincenti che talvolta si sono calati in modo troppo stereotipato nel ruolo, che vede il malato mentale fin troppo irascibile, eccessivo nelle reazioni , con tremolii costanti e con lo sguardo completamente perso nel vuoto) e lo fa dando a ciascun elemento della cooperativa un ruolo significativo all’interno della ditta di rivestimenti in legno e parquet che in poco tempo riesce ad avviare.

L’ex sindacalista, fin dal primo momento, cerca di restituire dignità e consapevolezza di sé a quei pazienti trattati da sempre come amebe da imbottire di psicofarmaci e non come persone responsabili della propria vita e del proprio ruolo. Nello chiama tutti “signori”, “signore” e “cari soci”, riconsegnando loro un’identità che forse non avevano mai avuto, perché fagocitata anch’essa dalla malattia e soprattutto dal modo in cui veniva visto il disagio mentale prima della Legge 180: il malato era la sua malattia. Una visione rigida e arretrata, a cui Nello contrappone il suo spirito combattivo e innovatore, incarnata dal dott. Del Vecchio (Giorgio Colangeli), psichiatra che gestisce la cooperativa da diverso tempo. Gli ideali pre-basagliani di Del Vecchio, più attento a mantenere lo stato di quiete dei suoi pazienti che a reintegrarli nella società civile, si scontrano con le idee radicalmente progressiste di Nello e del dottor Furlan (interpretato da un bravissimo Battiston), giovane e moderno psichiatra del centro, quando insieme ai pazienti decidono di abbandonare il lavoro assistenziale per entrare nel “mercato” del parquet, ma soprattutto quando decidono di ridurre nettamente il dosaggio dei farmaci, perché gli effetti collaterali impediscono ai membri della cooperativa di vivere una vita normale.“Le medicine mi mangiano la forza” dice Luca (Giovanni Calcagno), il più violento e introverso tra i pazienti della cooperativa, che non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto per tornare alla sua attività.
La storia, seguendo un andamento abbastanza prevedibile, oscilla tra momenti comici degni di nota come la scena in cui Roby, il paziente autistico ribattezzato “il presidente”, accompagna Nello da due potenziali clienti, o il passaggio in cui tutti i membri della cooperativa si approcciano con delle prostitute pagate direttamente con i finanziamenti dell’Unione Europea ottenuti da Furlan a passaggi di una drammaticità estrema che non possono lasciare indifferenti lo spettatore, come il suicidio di Gigio (toccante l’interpretazione di Andrea Bosca), il più sensibile dei pazienti che dopo una delusione amorosa (con annessa umiliazione) decide di porre fine ad un’esistenza che sembra mutare forma solo apparentemente.

Questo è il punto più basso della storia, tutti ne escono sconfitti, perfino Nello decide di mollare e di accettare un lavoro simbolo per eccellenza della “Milano da bere” di quegli anni, che tutto aveva a cuore tranne la salute mentale degli sconfitti. Il suicidio di Gigio sembra trascinare con sé tutti gli sforzi fatti da Nello e Furlan, ma soprattutto da tutti i suoi compagni di vita e di lavoro, fino a che è lo stesso Del Vecchio a fare un passo indietro per farne fare alla storia dieci in avanti. Lo psichiatra non può non notare che gli straordinari cambiamenti dei suoi pazienti non possono dipendere nella maniera più assoluta dai farmaci, ma dallo straordinario lavoro di Nello e questa volta è lui a tentare di convincere l’ex sindacalista a ritornare dai suoi “soci”.
Nel discorso del medico reazionario paradossalmente c’è tutto il senso del film: nel suicidio di Gigio non c’è solo un responsabile, la colpa è di tutti ed è normale sbagliare quando si cerca di cambiare le cose, come nella malattia mentale così nella vita di tutti i giorni.
Il film di Manfredonia riesce a trattare in modo molto leggero, simpatico ma mai banale un argomento particolarmente delicato e complesso che trae ispirazione da storie realmente accadute in quegli anni di passaggio tra una psichiatria antiquata che vedeva i pazienti come semplici fantocci privi di sentimenti, capacità e aspirazioni e un nuovo modo di trattare il disagio mentale e la sofferenza: i pazienti non sono la loro malattia, ma persone che hanno bisogno di sentirsi responsabilizzati, di avere una vita affettiva e sessuale e soprattutto hanno il diritto e il dovere di ricercare il proprio posto nel mondo, che non si trova certamente all’interno di quattro mura grigie.
“Bisogna partire dalle cose per arrivare alle emozioni” ci dice Furlan e infatti attraverso le cose i soci della cooperativa riescono a capire cosa vuol dire sentirsi parte del mondo, mostrandoci come attraverso gli scarti, i pezzetti di legno con cui costruiscono i loro parquet a mosaico, si può creare qualcosa di bello.