L’impronta ecologica degli alimenti

Cibi stagionali e del territorio per una salute e un ambiente migliori 

Quando si parla di cucina non è facile trovare un collegamento con il tema della salvaguardia dell’ecosistema, perché erroneamente si crede che quello che finisce nel nostro piatto ha poco a che vedere con il buco dell’ozono o l’aumento delle temperature a livello mondiale. Da anni però studiosi e analisti ci raccontano un’altra versione dei fatti, con chilometri di inchiostro spesi per libri, articoli e materiale informativo, come anche ore e ore di trasmissioni radio-televisive sul tema. Quando appoggiamo un tegame sul fornello o impiattiamo una pietanza occorre considerare tanti aspetti di quel cibo che ci apprestiamo a cucinare o gustare, tra cui la sua impronta ecologica, legata al nostro modo di consumare. L’impronta ecologica è un indicatore che misura il consumo, da parte degli esseri umani, delle risorse naturali che produce la Terra. Tale indicatore è stato introdotto per la prima volta dagli studiosi Mathis Wackernagel e William Rees nel 1996. 

Proviamo a rendere più chiaro questo passaggio. Gli esempi che possono palesare quest’aspetto sono vari. Da un lato si registra un mutato modo di consumare certi prodotti, ormai reperibili sul mercato tutto l’anno, perché spesso importati quando da noi sono fuori stagione. Penso al classico esempio delle fragole nel periodo di Natale. Questo frutto, da noi naturalmente reperibile in primavera, quando mangiato a dicembre sottintende a una sua reperibilità su mercati lontani, quindi quel cestino di fragole comprate per il cenone natalizio si porterà dietro un gran numero di chilometri fatti (se proveniente da mercati lontani) o un gran quantitativo di energia per produrle in serra (se di filiera europea o italiana).

In secondo luogo, sempre considerando le nostre fragole, queste hanno un quantitativo di imballaggio spesso spropositato: oltre alla vaschetta che le contiene, vi è altro materiale posto a tutela degli urti, infine una pellicola a sigillare tutto il pacchetto. In entrambi i casi si determina un consumo di energia – quindi di risorse naturali – che non sono incluse nel costo reale del prodotto e che, alla lunga, arrecano un danno impressionante all’ambiente, se moltiplicato per milioni di pezzi venduti in tutto il Paese. 

Passiamo al secondo esempio. Degli allevamenti intensivi di bovini come causa di grande inquinamento si ha coscienza da molto tempo. Non voglio guastare le feste a nessuno in un periodo estivo tipico per la bellezza della convivialità offerto dai barbecue tra parenti e amici. Occorre però ricordarsi che per produrre una bistecca si consumano decine e decine di litri di acqua potabile. Tale risorsa viene sottratta al consumo dell’uomo, in un mondo dove 2,2 miliardi di persone non hanno accesso diretto ad acqua potabile, come racconta un dato emerso in occasione della giornata mondiale dell’acqua, lo scorso 22 marzo. 

Nelle nostre scelte di consumo dovremmo approcciarci con maggiore responsabilità, prediligendo alimenti stagionali, di filiera corta e che usino poco imballaggio per la loro conservazione e distribuzione, in modo da ridurre progressivamente la richiesta di certi prodotti nocivi per l’ambiente, incidendo altresì sul numero di chilometri che quel prodotto deve fare per giungere fino a noi, distanza che ovviamente produce inquinamento. Ma come possiamo cambiare rotta? Una risposta univoca non c’è, non ci sono ricette facili, ma possiamo, per esempio, prediligere i negozi sotto casa e i mercati rionali, dove è più facile controllare l’origine del prodotto ed è più probabile il rispetto di certe abitudini, come la limitazione degli imballaggi. Si tratta di soluzioni che aiutano a ristabilire un equilibrio maggiore tra noi e il cibo che consumiamo, ricordandoci che lo spreco – anche in termini di impronta ecologica – si ripercuote su tutto il pianeta e sul futuro di generazioni che a oggi non sono ancora nate. 

 

Sonia Gioia