Sono le 6,30 del mattino, fa freddo: è il 22 febbraio 1993. Quella al manicomio di Siracusa è la prima di una serie di visite a sorpresa, organizzate dal Comitato dei Cittadini per i Diritti dell’Uomo (CCDU), all’interno dei manicomi italiani. Roberto Cestari, medico, raccoglie alcune testimonianze nel volume “L’inganno psichiatrico”: «Andiamo verso i padiglioni… entriamo e quello che ci troviamo davanti è qualcosa che nessuno di noi dimenticherà mai più. Subito veniamo avvolti da un tanfo di escrementi nauseabondo, penetrante, insopportabile. Gli stessi escrementi sono disseminati ovunque. I pazienti, ma sarebbe meglio dire gli internati, di notte sono rinchiusi in orribili cellette a due posti; lo sporco, la puzza e il degrado sono impressionanti. I muri sono diroccati, scrostati, coperti di muffa, i serramenti (vetri e finestre) rotti… Le uniche cose che funzionano sono i catenacci che chiudono le porte; anche le inferriate alle finestre sono in piena efficienza. A quell’ora del mattino gli internati vengono fatti uscire dalle celle e rinchiusi in un grande stanzone dove ci sono alcune sedie e due finestre con le sbarre. Proseguiamo nell’ispezione e vediamo meglio queste celle dove passano la notte: i materassi, privi di cerate, sono intrisi di escrementi. Non vi è alcuna forma di arredo. Nelle stanzette solo i letti, nelle sale comuni tavoli sedie e qualche panca. Chi vive lì non ha oggetti personali; chi li ha (pochissimi), non ha posto dove metterli. Dai bagni luridi, semidiroccati e senza porte, coi pavimenti allagati di acqua, urina e feci, alle docce che solo a vederle si esita ad entrare, temendo per la propria salute, la visita prosegue verso gli altri padiglioni, nessuno escluso, sia maschili che femminili. Qualcuno sta male; una giornalista deve uscire a prendere un po’ d’aria: il tanfo di escrementi colpisce lo stomaco».
l manicomi oggi non ci sono più, eppure sono sopravvissuti ai cambiamenti luoghi che riproducono malattia, cronicità, esclusione. Le strutture di oggi sono di più piccole dimensioni, dislocate nei territori, con funzioni e normative diverse ma gli spazi restano separati e continuano a riprodurre gerarchie ed a rafforzare i poteri, sottolineando la distanza tra chi cura, chi è curato e chi sta fuori.
Parlare del rapporto tra psichiatria ed architettura significa aprire il discorso ai temi dell’abitare, della cittadinanza, dell’insicurezza sociale, del sistema di welfare e delle politiche sociali.
La sociologia ci ricorda che sono proprio i contesti sociali deprivati, compresi i luoghi dell’abitare, che «favoriscono l’adozione di stili di vita insalubri» (Cardano, 2009), che contribuiscono a creare una spirale di malessere, con un costo sociale ed economico altissimo. Un luogo “bello” invece, che si percepisce essere pensato e realizzato per il benessere di chi lo attraversa, stimola a prendersi cura di sé e lo spazio diventa “uno spazio di opportunità per esperienze possibili” (Fortunati,2008). _
E’ evidente che la riabilitazione psichiatrica passi quindi anche attraverso i concetti di casa e di abitare, spesso intesi con il medesimo significato, ma in realtà possibili rappresentazioni di un diverso modo di vivere. L’abitare è una delle dimensioni importanti della costruzione di sé e della progettazione della propria vita e la qualità dell’abitare, il luogo in cui si vive e il contesto che si frequenta spesso riflettono la struttura delle diseguaglianze nella società. Se per casa si intende un luogo ove semplicemente vivere, non occorre manifestare particolari abilità, è sufficiente “stare” e questo è possibile in ogni luogo (dall’ospedale psichiatrico ad un alloggio) e a qualsiasi livello di riabilitazione raggiunta.
Abitare, invece, può rappresentare qualcosa di più e di diverso: acquisire contrattualità, esercitare un potere, sia esso materiale o simbolico, essere protagonisti e partecipi di quanto si sta vivendo.
Il manicomio ha simboleggiato il luogo per eccellenza del “non abitare”, ma dello “stare”, per questo la svolta della psichiatria ha focalizzato gran parte del suo interesse sulla residenzialità: la storia di un paziente psichiatrico è anche un percorso di “case”, posti che non implicano necessariamente l’abitare.
Il lavoro che oggi è possibile effettuare consiste quindi nel definire l’uso della “casa” e la conquista dell’abitare. La casa non è l’unico spazio possibile da abitare: ogni luogo in cui si trascorre un tempo significativo ha la possibilità di essere vissuto, quindi ogni servizio in cui si viene a contatto con i pazienti è una possibile “palestra” dell’abitare.
Abitare è una capacità interiore che si può acquisire, per questo vale la pena di lavorare sull’habitat ottenendo così il diritto di abitare e non solo quello di avere una casa, nella speranza che tale ottica rappresenti davvero il superamento della mutualità manicomiale.
La letteratura scientifica e l’esperienza maturata in questi anni dimostrano che sono la povertà o la mancanza di risorse abitative e di efficaci programmi riabilitativi a rendere difficile progettare sistemazioni di vita al di fuori del nucleo familiare, delle strutture psichiatriche ad alto grado di protezione, oppure occupando impropriamente i posti nei reparti di diagnosi e cura.
Come espresso dallo psichiatra Franco Rotelli, uno degli assi fondamentali della riabilitazione non è quello della “casa” bensì quello dell’”habitat”. Soltanto questo spostamento permette di formulare politiche e programmi avendo come obiettivo la trasformazione degli habitat (siano essi cliniche psichiatriche, case, ambulatori, residenze protette o gli stessi domicili dei pazienti): è il processo di trasformazione da spazio a luogo, da istituzioni residenziale ad habitat ciò che deve connotare la pratica riabilitativa. Ovunque si incontri il paziente, andrà fatto un lavoro di “habitat”.
“La funzione di intermediazione” è la funzione dello staff impegnato sull’asse habitat “…al di la’ della sua storica dislocazione sull’ipotetico percorso che va dall’ospedale psichiatrico al contesto sociale, essa si propone di operare per il cambiamento sul piano individuale (dalla destrutturazione verso l’identita’), sul piano famigliare (dall’espulsione verso l’accettazione), sul piano sociale (dall’emarginazione verso l’inserimento)”(Tagliabue, 1993).
E’ solo in questa logica che assume senso la nozione di casa: la casa è un diritto ma questo diritto non rappresenta solo la casa ma anche la sua acquisizione come processo di formazione della cittadinanza del paziente. La sfida della tutela della salute mentale passa inevitabilmente anche per i meccanismi di finanziamento, che dovrebbero evolvere attorno a percorsi integrati socio-sanitari su cui misurare i risultati sociali, sanitari ed economici. Si tratta di promuovere sperimentazioni all’interno del Servizio sanitario nazionale e del complesso dei meccanismi di protezione sociale, misurarne e confrontarne i risultati a livello nazionale e stabilire criteri d’incentivazione. In questo modo la figura del degente istituzionalizzato evolve a quella di paziente curato fino a quella di cittadino tutelato. In gioco c’è il compimento del diritto costituzionale alla salute: “La libertà è terapeutica” diceva Franco Basaglia, anche quella di sperimentare forme nuove per garantire l’esercizio dei diritti.
Il superamento di una dimensione istituzionalizzante in psichiatria ha portato a progettare forme di residenzialità più leggera che possono essere al tempo stesso più economiche e di maggiore qualità sul piano terapeutico e riabilitativo. Da anni all’interno di alcuni servizi pubblici si sono realizzati appartamenti autogestiti e piccole comunità di pazienti. Nelle strutture residenziali supportate si sono sperimentate nuove forme di gestione del tempo e dei percorsi che mirano allo sviluppo dell’autonomia dei pazienti. Oltre ovviamente alla cura della dimensione individuale e relazionale, due sono gli elementi qualificanti degli appartamenti supportati: il rapporto con il territorio e la cura e personalizzazione degli spazi che focalizzi la dimensione estetica come presupposto di una buona qualità della vita. La stessa residenzialità protetta viene adottata per periodi di tempo limitati e rappresenta un “trampolino” per l’avvio di percorsi riabilitativi e di integrazione nella comunità. Il rischio di sviluppare dipendenza dai servizi o stabilire rapporti infantilizzanti, che di fatto bloccano qualunque movimento emancipativo per gli utenti, risulta minimo. Programmi residenziali come l’abitare supportato, che non prevedono l’assistenza continua, ma si fondano sul sostegno offerto da operatori non stabilmente presenti nella struttura, hanno maggiore probabilità di promuovere processi di emancipazione. Diversi studi mostrano che l’alloggio supportato è molto più efficace di altre forme tradizionali di residenzialità, e comporta una serie di benefici: minori costi di gestione, aumento della qualità della vita, migliore performance delle abilità di vita indipendente, decremento dei tassi di ospedalizzazione. Come richiamato nelle Linee di indirizzo nazionali per la Salute Mentale (Conferenza Unificata 20 marzo 2008), le strutture residenziali supportate sono quindi strutture intermedie che hanno la funzione di sostenere e accompagnare le persone che esprimono un disagio e una sofferenza psichica nella riappropriazione della propria dignità e della propria autonomia e che non possono essere concepite come una soluzione abitativa permanente. Tali strutture rappresentano quindi un “nodo” della rete dei servizi per la salute mentale e devono differenziarsi e potersi modulare al loro interno in base alle esigenze delle persone utenti del Dipartimento di Salute Mentale.
A Roma però la realizzazione di appartamenti supportati viene in molti casi ostacolata:
un paradosso per una Regione come il Lazio, commissariata da anni e con un debito sanitario molto elevato (636,3 milioni nel 2012). Circa l’80% delle persone che hanno fatto un percorso in comunità psichiatrica arrivano a una condizione in cui non hanno più bisogno di soluzioni istituzionali come le strutture residenziali e l’assistenza 24 ore su 24, eppure generalmente continuano a vivere con questo livello di assistenza per il fatto che non esistono concrete alternative. Il problema risulta in parte organizzativo ( per un ricovero basta la ricetta del medico, per un cohousing bisogna chiedere permessi e attivare un progetto) e in parte economico. I gruppi-appartamento nel Lazio vengono infatti spesso finanziati grazie ai “sussidi terapeutici per disagiati psichici” previsti dalla legge regionale 49/83 istitutiva dei Centri di salute mentale, con cui però devono essere finanziate anche tutte le altre attività di supporto all’autonomia delle persone con disturbo mentale, mentre le cliniche e le comunità psichiatriche godono di risorse certe, grazie a convenzioni con la Regione.
La disparità nello stanziamento delle risorse è enorme: per i sussidi terapeutici per disagiati psichici, con cui vengono finanziati anche borse lavoro, attività di socializzazione, vacanze, la Regione ha versato nel 2012 alle dodici Asl del Lazio circa 6 milioni di euro. Lo stesso anno ha destinato alle strutture residenziali del territorio regionale oltre 83 milioni di euro: si tratta di 1.350 posti letto, di cui 800 in case di cura e 550 in comunità.
Fuori dal territorio romano, case supportate sono nate grazie all’impegno di singoli medici e amministratori locali, perciò non esiste un elenco di tutte le realtà di cohousing in ambito psichiatrico oggi attive in Italia. L’esperienza più antica è a Trieste, prima città a chiudere un manicomio: qui il cohousing è cominciato nel ‘75 e oggi la “regola” è realizzare appartamenti di meno di 6 persone. Nel distretto di Torino1 c’è l’esperienza più vasta: 60 gruppi appartamento con diversi livelli di assistenza, e 150 persone che in seguito sono andate a vivere da sole. A Trento ci sono le sperimentazioni più innovative, come la pratica di intestare l’affitto ai pazienti stessi per favorirne la responsabilità, ma anche l’idea di promuovere la convivenza dei pazienti psichiatrici con rifugiati e richiedenti asilo politico. Nel centro-Italia c’è l’esperienza rivoluzionaria della Rete toscana utenti salute mentale, i cui membri hanno costituito una cooperativa che gestisce gruppi appartamento, a Massa-Carrara e a Pisa, e crea lavoro. In Basilicata nel ‘78 ci fu la prima esperienza nel centro-Sud Italia di una struttura residenziale alternativa al manicomio: oggi sono 3 i gruppi appartamento in provincia di Matera nati 10 anni fa su iniziativa della cooperativa “Progetto Popolare”. In Sicilia, a Caltagirone, sono nati 4 gruppi appartamento grazie a un progetto lavorativo di produzione agricola finanziato dall’Unione europea 10 anni fa, ma che prosegue ancora oggi.
Sulla base di queste piccole eccellenze, risulta urgente quindi investire nel campo della salute mentale almeno su due fronti per rendere i sistemi regionali articolati, diffusi e capaci di risposte coerenti e integrate. Innanzitutto bisogna rendere gli spazi della psichiatria luoghi di cura, dove le scelte strutturali, costruttive, urbanistiche siano orientate alla cultura dell’estetica, dell’accoglienza e dell’ospitalità. Allo stesso tempo, è importante investire in forme di recovery che facilitino reali e possibili percorsi di autonomia attraverso gli appartamenti supportati, tenendo a mente che i Dipartimenti di salute mentale non sono più soltanto “la psichiatria” ma sono composti dalle persone che li attraversano.