La grande depressione. Come uscire dalla “fine del mondo”

Nel luglio scorso l’Istat pubblicava un’indagine su “Tutela della salute e accesso alle cure”, in cui riportava che la salute mentale in Italia è peggiorata rispetto al 2005: “la depressione è il problema di salute mentale più diffuso e il più sensibile all’impatto della crisi, riguarda circa 2,6 milioni di individui (4,3 per cento), con prevalenza doppia delle donne rispetto agli uomini”. Un disturbo che tocca sia i giovani che faticano a trovare lavoro, sia i cinquantenni che rischiano di perderlo. Fin qui nulla di strano, sarebbe clamoroso il contrario. In un periodo di recessione non ci si immagina certo un aumento della felicità. Quando non si può contare su uno stipendio, se i bilanci della propria attività sono in rosso, la depressione è dietro l’angolo.

Un rapporto dell’OMS afferma addirittura che nel 2020 il secondo motivo di decessi e d’invalidità sarà proprio la depressione, dopo le malattie cardiovascolari (pare fra l’altro che i due problemi siano interconnessi).
Sebbene l’Istituto superiore di Sanità dica che “non è possibile stabilire una relazione tra la crisi economica e mortalità per suicidio”, negli ultimi tempi il racconto sovraccarico emotivamente di disoccupati e imprenditori, strozzati dalla recessione, che sceglievano di farla finita, ha rimbalzato dalle tv ai giornali con grande risonanza e i dati ufficiali registrano una significativo aumento dei casi (149 suicidi nel 2013 e 89 nel 2012).
Su tutto questo “ben di Dio” la stampa nostrana ha viaggiato a gonfie vele. Con la disperazione trattata come un ‘problema’ di natura biologica (la depressione) da risolvere con la sola potente arma della farmacologia.
Ma ricevere una narrazione di questo tipo, non significa sapere una storia. Per dirla con Wu-Ming, si tratta di una “narrazione tossica”, una storia “raccontata sempre dallo stesso punto di vista, nello stesso modo e con le stesse parole, omettendo sempre gli stessi dettagli, rimuovendo gli stessi elementi di contesto e complessità”. Raccontare la “fine del mondo” ha sicuramente un impatto potente sui lettori, ma non li aiuta a capire cosa succede.
Così come parlare di depressione in modo esclusivamente “medico” rischia di ridurre la complessità del problema. Siamo sicuri che non riuscire ad affrontare i problemi della vita sia sempre l’effetto di una “malattia del cervello”?
Perché si potrebbe correre il rischio di “colpevolizzare i cervelli”, tralasciando in un sol colpo tutti quei fattori psico-sociali che co-determinano un’esistenza triste e precaria. E questo discorso si rispecchia nelle soluzioni adottate: l’evidente circolo vizioso che lega l’industria farmaceutica a buona parte della psichiatria altro non fa che trovare una soluzione parziale al problema. Col rischio di cronicizzarlo.
I farmaci possono aiutare ad uscire da tormenti che sono in grado di distruggere un’esistenza. Ma vanno combinati a percorsi psicoterapeutici complessi, spesso onerosi e dove sono richieste competenze multidisciplinari. In un sistema sanitario allo sfascio, il cittadino fatica sempre più a ricevere percorsi di cura adeguati. La lotta non dev’essere tra terapia farmacologica e terapia della parola, ma rivolta a cambiare l’ambiente in cui viviamo (questo sì alla radice dei nostri disturbi), ad uscire dalla “Grande depressione”, oltre che da quelle individuali, a mantenere la sanità pubblica ad un livello eccellente. Per farlo è priorità assicurarsi di capire quello che ci sta succedendo. Al di là delle “narrazioni tossiche”.

Foto: Paolo Marconi