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Intervistiamo la dott.ssa Giuseppina Gabriele, direttrice del Centro di Salute Mentale dell’XI Distretto della ASL RMC. Ci spiega brevemente l’approccio metodologico con il quale si deve (o si dovrebbe) lavorare nei CSM, con lei affrontiamo le tematiche della cronicità, delle eccessive risorse destinate alle cliniche private e del decreto 188/2015 da poco approvato nella Regione Lazio.
D: Cos’è la salute mentale territoriale, in che cosa consiste e qual è la differenza rispetto alle pratiche di psichiatria più tradizionali?
R: Il senso del CSM è quello di fare una presa in carico con un approccio complesso, multidisciplinare, integrato, che tenga conto dei bisogni del paziente e cerchi di rispondere alle sue esigenze in maniera non rigida e preformata. Ciò significa fare progetti individuali da parte di un’equipe, quasi mai di un singolo specialista, e garantire una risposta complessiva, globale. Questo lo differenzia da un ambulatorio in maniera abbastanza radicale, perché in un ambulatorio il paziente chiede un appuntamento a un singolo specialista e da questo viene seguito in maniera assolutamente duale. È importante sottolineare che naturalmente quest’approccio è assolutamente indispensabile per i pazienti gravi, con una situazione di salute mentale abbastanza compromessa, non varrebbe se stessimo parlando di un paziente che può usufruire di una psicoterapia. Le stesse linee guida della conferenza Stato-Regioni sottolineano che il target specifico del CSM è quello di prendere in carico la patologia grave.
D: Con il recente decreto 188/2015 c’è la paura che la residenzialità delle cliniche private porti a depotenziare questo tipo di approccio. Cosa ne pensa di questo decreto e della situazione delle residenze private nel Lazio?
R: La situazione delle cliniche private convenzionate del Lazio è stata definita negli anni ’80 un vero e proprio scandalo. Venne scritto un libro all’epoca (Lo scandalo psichiatrico del Lazio del dott. Renato Piccione) e ci fu una lunga diatriba legale tra psichiatria democratica e la magistratura perché la tesi che veniva portata avanti negli anni ’80 era quella che alla chiusura dei manicomi dovesse corrispondere una chiusura anche di queste strutture private convenzionate . Quella lunga vicenda legale fu persa da parte di psichiatria democratica perché la magistratura ratificò l’esistenza di queste strutture. Quindi da dopo la legge 180 nel Lazio una grande parte delle risorse economiche destinate alla salute mentale finiscono nel pagamento di queste cliniche.
Personalmente ho potuto riscontrare che c’erano anche situazioni di lunga degenza, persone che per più di 10 anni stavano ricoverate in queste strutture. Ritengo che scotomizzare questa realtà, fare finta che non esista, continuare a lasciarla fuori dalla rete dei servizi sia molto dannoso per la nostra attività. Per tale ragione a me sembra che invece il decreto 188 possa essere un piccolissimo passo avanti, nel senso che per la prima volta la Regione si pone il problema di monitorare, si avvia un monitoraggio di tutti i pazienti, si stabiliscono delle regole per le dimissioni, ad esempio che un paziente non può stare in STIPIT (Strutture per Trattamenti Psichiatrici Intensivi Territoriali) per più di 60 giorni mentre prima ci potevano restare per anni senza che nessuno avesse nessun controllo della situazione. Presso i CSM viene data maggiore importanza alle UVM (Unità Valutativa Multidisciplinare) che devono verificare ogni singola richiesta di ingresso e sottoporre alla Regione i dati di queste accoglienze e quindi io lo considero un po’ come un approccio che può essere sfruttato da parte dei servizi per cominciare a mettere regole di trattamento all’interno delle ex cliniche che erano invece un enclave prima, dentro succedeva quel che succedeva e nessuno ne sapeva nulla. Tant’è vero che mi risulta che in alcune situazioni, almeno sicuramente la nostra (distretto 11 dell’Asl RMC) i ricoveri sono molto diminuiti, perché prima esisteva una possibilità soprattutto dei pazienti seguiti privatamente di accedere sostanzialmente ad un rapporto quasi diretto con le cliniche, prenotando direttamente il posto e utilizzando il CSM solo come un ufficio burocratico che doveva ratificare una richiesta fatta da altri. Adesso questa procedura non è più possibile. Per cui rimanendo chiara la contraddizione – perché io non ho rinunciato alla tesi degli anni ’80 che il privato non deve essere organizzato in quel modo ma se vuole collaborare con il pubblico si deve integrare in forme di collaborazione, di gruppi appartamento ecc… deve insomma diventare funzionale al servizio – stabilita questa verità iniziale, non vedo in che cosa il decreto 188 ci porti indietro rispetto al fatto che le cliniche esistevano e che assorbivano più risorse di quanto non ne assorbiranno adesso se i servizi faranno la loro parte effettiva di controllo della qualità e dell’appropriatezza dei trattamenti, lavorando caso per caso, nella pratica clinica.
D: Le cliniche costano molto, i ricoveri giornalieri variano tra i 150 e i 200 euro al giorno per paziente, nel momento in cui non si ricovera una persona in clinica cosa si può fare per seguire quel paziente?
R: Mi risulta che nella Asl RMD qualche anno fa fu proposto e attuato da parte della direzione generale un progetto di riconversione delle risorse in cui le risorse prima assorbite dalle cliniche in termini di giornate di degenza tramite un obiettivo dato proprio al direttore del dipartimento di salute mentale potevano essere riconvertite per i progetti territoriali. Questa è una decisione che deve prendere la Regione ma che possono anche prendere le direzioni generali delle aziende, cioè possono utilizzare una parte del budget risparmiato per riconvertirlo sulle necessità territoriali, producendo salute e creando progettualità in grado di fornire integrazione e prevenzione.
D: Quali sono le difficoltà di questa riconversione dal punto di vista pratico? Cosa potrebbe servire?
R: Serve sicuramente un indirizzo più chiaro, strategico, specifico, da parte della Regione Lazio, che dia indicazioni ai direttori generali delle Asl e possibilmente faccia anche un progetto obiettivo: questo risolverebbe il problema. È chiaro che questo si scontra con gli interessi delle cliniche, però io credo che si potrebbe sottoporre ai proprietari delle cliniche anche la possibilità di andare nella direzione di creare servizi più utili per la salute mentale. Se potessi farlo io proporrei che si integrassero nella rete dei servizi, per esempio facendo gruppi appartamento o altri tipi di strutture, e dall’altra parte darei il budget risparmiato per incrementare il personale nei CSM che sono piuttosto privi di risorse.
D: In questa riconversione delle risorse, quindi anche un approccio territoriale, anche in termini di spending review, di gestione migliore della spesa, fa anche risparmiare?
R: Certo, ci sono due ragioni molto serie: primo, l’intervento territoriale e le strutture leggere, quelle che non istituzionalizzano, costano di meno e quindi sicuramente si può, con risorse più ragionevoli, prendere in carico più pazienti. Ma c’è un elemento ancora più importante, quello della cronicità, cioè se noi lasciamo troppo tempo i pazienti in una clinica produciamo una nuova cronicità che richiede un intervento assistenziale molto lungo nel tempo e quindi il paziente non solo costa di più nella singola giornata, ma costa di più nell’arco della sua vita e oltretutto costa di più in termini umani, oltre che in termini economici che potrebbe anche interessarci di meno, perché non produciamo salute. Allora, se noi pensassimo di riconvertire quelle risorse a minor costo, potremmo offrire più efficacia e quindi curare e guarire, intervenendo in alcuni casi precocemente sui giovani e non permettendo l’istituzionalizzazione. Perché se il tetto delle risorse in una fase di tagli viene mantenuto uguale, vuol dire che le risorse che vanno a coprire la spesa delle cliniche sono risorse che non possono essere date ai CSM che, ribadisco, stanno in una situazione grave di mancanza di personale.