Padiglione 25, dalla custodia alla cura. L’intervista a Vincenzo, infermiere del manicomio

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Il prossimo 31 marzo, alle ore 18, presso il museo Maxxi di Roma verrà proiettato in anteprima il film documentario “Padiglione 25, Diario degli infermieri” (di cui potete leggere qui l’intervista al regista). La storia è quella di un gruppo di infermieri romani che nel 1975 ha trasformato in uno spazio di sperimentazione un padiglione del manicomio Santa Maria della Pietà a Roma. Prima della riforma Basaglia e sulla scia delle esperienze basagliane del Nord Italia, il padiglione è stato teatro di un’esperienza di de-istituzionalizzazione che ha restituito dignità al lavoro degli infermieri e alla vita dei pazienti. A raccontarci quell’esperienza di trasformazione è Vincenzo Boatta, infermiere del padiglione, nell’intervista che segue.

Vincenzo, com’è nata l’idea del diario da cui è tratto il film?

È nato per scrivere la nostra storia. Pensavamo che le persone ricoverate in quel padiglione dovessero essere in un certo senso de-istituzionalizzate, nel senso che alcuni facevano proprio fatica ad uscire dal reparto. Volevamo dare loro la possibilità di riagganciare le famiglie per essere poi dimessi. Questo era il nostro obiettivo, che partiva dallo staccamento dal Padiglione Centrale per arrivare in un luogo (il Padiglione 25) senza sottostare alle regole rigide tipiche di un Padiglione gestito invece da suore e medici che di tutto questo lavoro non volevano intendere. Noi seguivamo le tracce di ciò che succedeva a Trieste e Gorizia, quindi le tracce di Basaglia e pensavamo si potesse fare anche da noi.

Ci racconti una giornata tipo di un infermiere del Padiglione 25?

Non posso dire che ci fosse una giornata tipo perché tutto era incentrato su come si stava trasformando la vita delle persone di questo nuovo reparto, che non aveva più le vecchie regole come le sbarre alle finestre ecc. Nel Padiglione 25 si partiva da un dialogo tra gli infermieri, una specie di scambio di consegne. Si passava al rifacimento dei letti e alla pulizia del reparto. La porta era sempre aperta, non c’erano sbarre, c’era la convinzione che alcune cose si potessero fare insieme, in modo collettivo. C’era sempre uno scambio di opinioni. C’era chi si occupava della relazione coi pazienti e coi familiari. Non c’erano più le vecchie divise. Scoprimmo che in un Padiglione c’erano tantissimi vestiti nuovi che le ditte regalavano al Santa Maria e li distribuimmo ai pazienti. Anche attraverso le azioni di vestirsi, uscire, andare a cercare il lavoro, tentavamo di rieducare le persone che erano state private per tanti anni della loro vita.

Com’era il manicomio nel momento in cui hai preso servizio per la prima volta?

Quando presi servizio io (nel 1975) era un luogo di occultamento. Neanche il personale che faceva servizio sapeva chi fossero i pazienti: era vietato leggere le cartelle cliniche, si conosceva a malapena il nome del paziente, non c’erano rapporti con le famiglie. Gli unici che potevano avere rapporti con pazienti e famiglie erano la suora capo Padiglione e il medico capo reparto. Noi facevamo solo attività di custodia attraverso tutte le 24 ore, una custodia che però era del tutto anonima. Eravamo letteralmente dei secondini, ma mentre in carcere qualcuno può farsi valere per alcune cose, al Santa Maria chi si ribellava andava incontro a delle terapie farmacologiche molto pesanti, o addirittura elettroshock. I pazienti erano sfruttati per il lavoro, chiusi nei reparti perché non potevano uscire. I 30 ettari del parco del Santa Maria erano tutti recintati. La sera cenavano e andavano a letto. Non c’era un vero obiettivo nelle loro giornate. Le persone che stavano meglio paradossalmente non venivano dimesse, anzi gli venivano dati dei compiti diversi.

Come si definiva il malato mentale in quel contesto?

Se noi potevamo essere definiti dei secondini, loro erano ancora meno dei carcerati. Erano meno che persone. Non saprei come definirli perché non c’ho mai pensato. Erano come fantasmi che vagavano tra i reparti, non sono mai esistiti come persone. Esistevano come numero. Se una persona veniva dichiarato come “pericoloso a se e agli altri o di pubblico scandalo” allora veniva portato da noi. Ma c’era pure una cosa discriminante: le persone benestanti andavano nelle cliniche private, mentre chi non aveva possibilità economiche veniva al Santa Maria della Pietà.

Prendendo spunto dal libro diario, ci puoi raccontare un aneddoto che ti è rimasto impresso?

Di aneddoti ce ne sono tanti, ma uno è particolare. C’era un paziente che si chiamava Michele che periodicamente andava in eccitazione perché ce l’aveva a morte con la suora caporeparto. Quindi lui veniva continuamente legato mani e piedi, e gli venivano applicate terapie farmacologiche molto forti, con dosi da “cavallo”, elettroshock ecc. Nel nostro reparto, dove tutte queste terapie non c’erano, abbiamo notato che le sue crisi venivano meno nel tempo e duravano anche meno. Cioè se prima duravano qualche mese, una volta passato al Padiglione 25 gli duravano solo pochi giorni. Quando andava in crisi lui voleva la terapia, ma uno dei colleghi, Germano, si metteva in ginocchio e gli diceva “tu mi puoi pure ammazzare ma io le fasce non te le metto”. Michele voleva proprio essere legato. È stato un emblema, ci ha sempre aiutato, col tempo è tornato quasi normale, è tornato a suonare una fisarmonica che non aveva mai suonato in Manicomio prima di arrivare al 25. Non sapevamo neanche che l’avesse. Quando andava in crisi usciva lo stesso, suonava la fisarmonica e si placava. Piano piano si stava riappropriato della sua vita. I pazienti non uscivano mai dal reparto, facevano 10 passi in una direzione e 10 in un’altra. Una mattina questo paziente prende, esce e lo ritrovano sul pianerottolo di casa sua a Piazzale degli Eroi. Dopo 30 anni è ritornato a casa sua e ha conosciuto il figlio che era nato quando lui era stato ricoverato, e che quindi non aveva più visto. Ma di questi aneddoti ce ne sono tanti.

Con quanti pazienti avete iniziato l’esperienza del 25?

Inizialmente partimmo con 20 pazienti, ma ben presto, per mandarci in crisi, ce ne mandarono molti di più. Il problema era questo: quell’esperienza per qualcuno doveva fallire. In realtà, il nostro esempio venne poi seguito anche dal padiglione 16 e dal 20. Al Santa Maria ci stavano due direttori e facevano a gara a chi poteva fare meglio. C’era una sorta di competizione.

Al di là di Basaglia, ti eri già reso conto che alcuni metodi, come l’elettroshock, potessero essere deleterei per i pazienti?

Direi di si, anzi rischiai addirittura il posto a causa di un elettroshock. Per eseguire l’elettroshock le persone venivano messe sui letti, una appresso all’altra. Poi passava il medico anestesista e faceva le anestesie. Poi si passava all’elettroshock. Un certo giorno un paziente di una certa età si mise in ginocchio e mi pregò di non fargli l’elettroshock. Accettai questa sua richiesta e fui chiamato dal Direttore perché comunque quella era una terapia che andava eseguita, e quindi io non potevo interromperla. Ho rischiato di brutto.

C’era solidarietà tra infermieri sul lavoro?

Alcuni capivano il senso dell’esperienza, altri dicevano che stavamo li a farci gli affari nostri. Forse era prematura come esperienza, perché fuori non c’era ancora niente ad accogliere i pazienti. Non c’erano i centri di salute mentale che ci potessero dare una mano, non c’era nulla sul territorio. Abbiamo fatto tante battaglie per avere una liberalizzazione all’interno dell’Ospedale, non più doppi turni ma l’assunzione di nuovo personale, grazie al sindacato e alle nostre assemblee qualcosa nel tempo si è modificato. Ma è stato pesante, soprattutto perché fuori non avevamo niente, e non potevamo neanche dimostrare che certe cose si potessero davvero fare applicando i nostri metodi.

Sei rimasto in contatto con qualche paziente dopo il 1999, quando è stato chiuso il Santa Maria della Pietà?

No, purtroppo nell’arco degli anni non abbiamo avuto neanche tempo di soffermarci a capire che cosa stavamo facendo. Se non ci fossero stati Massimiliano Carboni e Claudia Demichelis a riprendere in mano il libro sarebbe rimasto un libro scritto anni fa e basta. Dopo l’esperienza che racconta il libro è uscita la legge 180 (nel 1978). Alcuni di noi, gli artefici maggiori dei cambiamenti al Padiglione 25, hanno gestito alla loro nascita i centri di Diagnosi e Cura sul territorio, poi i Centri di Salute Mentale, e poi le Comunità, poi i centri diurni. Per noi quello è stato un momento di rifiuto del lavoro che secondo il sistema dovevamo svolgere, un momento di riscatto di tutti gli infermieri che non volevano più essere dei “guardia matti”, dei secondini insomma.

Ed ora il Santa Maria che cos’è?

Nel 2000, per il Giubileo, alcuni padiglioni divennero degli alberghi per i giovani studenti. Oggi quel discorso è stato abbandonato. Ora c’è l’ANTEA (associazione per i malati terminali) che funziona benissimo, ma il rischio è che tutto si ritrasformi in ambienti sanitari, mentre noi vorremmo (o meglio io vorrei) che il tutto rimanga invece come un qualcosa di sociale aperto al pubblico. C’è quel parco bellissimo che purtroppo è utilizzato in maniera indecorosa. Comunque c’è il Museo, voluto da Tommaso Losavio, che è importante perché racconta la storia del Santa Maria. Attraverso l’esperienza mia e di altri colleghi infermieri come Pallotta, o Vincenzo Gizzi, sono tornati alla luce i vecchi reperti con i quali abbiamo rimesso in piedi quella che era la vita quotidiana di un Padiglione. Avevamo riprodotto la “fagotteria”: quando un paziente entrava veniva spogliato di tutto ciò che aveva, dalle scarpe ai vestiti agli occhiali. Si faceva un fagotto che veniva portato in “fagotteria”. Pochi poi hanno potuto davvero riutilizzate i propri oggetti.

Secondo te la legge 180 è stata sempre applicata bene?

Secondo me deve ancora essere applicata fino in fondo. Nel 1980 fortunatamente l’amministrazione provinciale che gestiva l’assistenza psichiatrica assunse 300 animatori (dei quali la stragrande maggioranza erano psicologi) e questo ci permise di creare i servizi sul territorio. Il problema è che siamo rimasti a quell’epoca. Non c’è mai stato un ricambio o un rinforzo rispetto a chi è andato in pensione, c’è un’involuzione.

Oggi il sistema pubblico non offre ancora molte risposte ai bisogno e darle sono le cliniche private. Il rischio però è tornare ai piccoli manicomi, dove l’assistenza è fatta sulla custodia e non sulla cura. Nei centri territoriali che esistono oggi i pazienti svolgono attività significative, ma non è la loro casa. Dopo aver svolto le attività tornano a casa ma non vengono abbandonati a loro stessi, sono anzi seguiti dal punto di vista tecnico e scientifico. La mancanza di fondi fa sì che esista il rischio di non seguire adeguatamente un paziente: i centri diurni chiudono e vengono accorpati, il personale diminuisce i pazienti vengono seguiti di meno. Questo è un lavoro faticoso. Qui non stiamo in un ospedale, dove ti fanno un intervento e dopo tre giorni esci. Noi un paziente ce lo portavamo avanti per 20 o 30 anni, tutto il tempo necessario, non è un lavoro facile. E se vengono a mancare i lavoratori c’è un taglio del rapporto fiduciario tra il paziente e il terapeuta, che è significativo.

Quindi perché andare a vedere “Padiglione 25”?

Perché rappresenta il riscatto degli infermieri, e quindi il riscatto dei pazienti. Il ritrovare da parte dei pazienti la propria personalità, riportarli ad essere delle persone e non più dei numeri, e noi ad essere di nuovo operatori e non più secondini.

Matteo Roberti