La memoria di un uomo è ciò che dà vita alla sua sensibilità. È quello che potremmo dire nel caso di Alberto Di Buono, ingegnere ambientale, attivo nella lotta per il rispetto dell’ambiente dal 1992. È stato tra i primi a parlare pubblicamente della diossina che ha avvelenato la Terra dei Fuochi e a partecipare ai movimenti ambientalisti sul territorio italiano. Poeta e scrittore, ha dato vita a tre opere letterarie, di cui l’ultima è Terra di Nessuno (Graus Editore), romanzo ambientale scritto per sensibilizzare i lettori sulla questione della Terra dei fuochi, attraverso il ricordo giovanile di un territorio affascinante, un tempo rispettato ed ora deturpato dalla criminalità e dalla mala amministrazione.
Cosa ha generato in te l’interesse e la sensibilità verso i problemi ambientali?
Sono un appassionato di bicicletta e, soprattutto da ragazzo, amavo fare lunghe passeggiate nelle meravigliose campagne che circondavano il mio paese, proprio quelle che oggi vengono tristemente indicate come “Terra dei fuochi”. La bicicletta dà una prospettiva unica del territorio e te lo fa conoscere come nessun altro mezzo di trasporto, rendendoti parte integrante della stessa natura che ti circonda. La mia sensibilità per l’ambiente è nata allora, poi l’interesse è cresciuto nel tempo man mano che mi rendevo conto dello stato di abbandono in cui versava la mia terra, fino a diventare oggetto dei miei studi e della mia professione.
Quanto della tua esperienza personale c’è nei tuoi libri?
Credo che nella produzione di uno scrittore ci sia sempre qualcosa di autobiografico, perché non si può scrivere in modo completamente avulso dal proprio vissuto. A volte queste esperienze possono anche essere indirette, perché capitate a qualcuno che conosciamo, ma se ci colpiscono al punto da ispirarci, vuol dire che di fatto appartengono anche a noi. C’è molto di me in Federico Manfredi (il protagonista del libro) specialmente nelle sue esperienze giovanili, ma ti confesso che nella maturità mi identifico sempre di più con lo stesso Oikos.
Cosa pensi ci sia bisogno di fare dal punto di vista politico per risolvere la questione della Terra dei fuochi?
Voglio innanzitutto chiarire che non esiste un’unica terra dei fuochi, purtroppo ce ne sono tante altre in Italia e nel mondo, solo che la nostra è senza dubbio quella più pubblicizzata. Nel mio racconto Federico usa spesso ripetere: “il caso non esiste” e la sistematicità con cui si verificano i roghi tossici e gli incendi di aziende che trattano rifiuti non fa che avvalorare la sua tesi. Intorno alla gestione dei rifiuti c’è sempre stato un giro d’affari enorme e questo fa sì che, a monte del problema ecologico, ci sia un’emergenza di carattere criminale ben più grave che questa politica non sa o non vuole affrontare. La risposta alla tua domanda è molto semplice, bisognerebbe tornare a fare politica. Bisognerebbe che il bene comune torni ad essere l’obiettivo prioritario di chi è chiamato a rappresentarci. L’ambiente è l’espressione più elevata di bene comune, non a caso è proprio qui che c’è la massima proliferazione di interessi privati in danno a quelli pubblici. Occorre una moralizzazione della politica che parta dal basso, dalle comunità locali, che devono essere il motore di questo processo di rigenerazione. Occorre un nuovo modo di pensare e l’insieme di tanti piccoli contributi spontanei e quotidiani, fatti da ciascuno di noi, per cambiare questa politica e indirizzarci verso un mondo migliore.
Nella tua esperienza di attivista quali difficoltà hai incontrato?
La difficoltà più grande è stata quella di interfacciarmi con le istituzioni, gli imprenditori, i falsi ambientalisti e una politica che continua a sottovalutare il problema ambientale, utilizzandolo solo come uno slogan di grande impatto mediatico per perseguire altri obiettivi, soprattutto in periodi elettorali. Questa diffusa insensibilità è favorita anche dal fatto che purtroppo quando si interviene sul sistema ambiente il rapporto causa effetto non è immediato al pari delle normali vicende umane, ma ha dei tempi molto più lunghi rispetto a quelli con i quali siamo abituati ad interagire. Ciò porta a pensare che queste problematiche non riguardino direttamente noi ma le future generazioni, così il più delle volte non interveniamo in modo tempestivo, demandando il compito a chi verrà dopo di noi. L’altra faccia della medaglia, non meno problematica, è il catastrofismo ambientale che regna sovrano. Il terrorismo mediatico viaggia più velocemente delle buone notizie e regala grande visibilità e opportunità economiche e politiche. Chi si comporta così fa più danni dello stesso inquinamento e non ha niente a che vedere con la salvaguardia dell’ambiente. Non dimentichiamo che ogni emergenza porta sempre tante risorse economiche straordinarie che possono essere gestite in modo altrettanto straordinario, cioè senza tanti controlli.
Quali sono invece le maggiori soddisfazioni?
Le soddisfazioni più grandi che invece ho incontrato lungo la mia strada sono tutte collegate al rapporto con le nuove generazioni, alle quali riconosco una maturità ed una sensibilità verso queste tematiche del tutto sconosciute a noi di una certa età. A un certo punto della mia vita ho capito che i problemi ambientali non potevano essere affrontati solo da un punto di vista tecnico e professionale, così ho iniziato a dedicarmi alla divulgazione, alla sensibilizzazione e alla formazione, pubblicando libri, scrivendo articoli e incontrando studenti. Questo mi ha dato la possibilità di conoscere tanti giovani, sono stati proprio loro a farmi capire che non tutto è perduto. Posso affermare senza retorica che i ragazzi di oggi sono migliori di noi, dobbiamo solo chiedere loro scusa per la pesante eredità che gli stiamo lasciando, che non riguarda solo l’ambiente, ma anche la degradazione dei valori e dei principi che oggi si adottano per vivere, lavorare, interfacciarsi con gli altri. Il problema ambientale è solo una conseguenza di una crisi antropologica ben più profonda, che investe il nostro tempo e che sta allontanando sempre più l’uomo dai valori naturali. Nel libro definisco i giovani come “rami verdi” di un albero malato, ma se ci sono ancora rami verdi vuol dire che questa pianta è ancora viva e può essere salvata. Dunque è lì che si deve intervenire, è lì che trovo le maggiori soddisfazioni e la forza di andare avanti. La loro capacità di ascoltare mi indica che la strada che ho imboccato non può essere che quella giusta.
Cosa ne pensi della sensibilità ambientale che si è sollevata a livello mondiale, anche rispetto a Greta Thunberg?
Guardo con molto interesse e con fiducia questi nuovi movimenti, li ritengo importantissimi in questa fase di presa di coscienza del problema ambientale. Il primo stadio di un processo di guarigione è sempre l’accettazione dello stato di malattia, senza questo non ha senso alcuna terapia. Greta e il movimento che si è sviluppato intorno alla sua figura stanno svolgendo in tal senso un ruolo importantissimo. Tuttavia, bisogna sempre tener presente che la condizione necessaria per conseguire dei risultati concreti è quella di evitare assolutamente che a questo movimento spontaneo di giovani venga assegnata qualunque connotazione politica o partitica. A tal proposito mi chiedo perché tra tanti motivi musicali orecchiabili apolitici, si continuino a cantare gli slogan di Greta sulle note di una canzone che invece rappresenta una precisa fazione politica. Il colore dell’ambiente non è nero, né rosso, né verde o azzurro o arancione, ma li racchiude tutti. L’ambiente ha bisogno di trasversalità, di unire la gente a prescindere dal loro credo politico o religioso, perché è un problema che riguarda il nostro futuro e quindi l’intera umanità. Se lo si utilizza come uno strumento politico si finirà inevitabilmente per dividere e ottenere l’effetto opposto. Mi dispiace che tanta gente non abbia ancora capito questa cosa così semplice. Etichettare un movimento spontaneo come quello di Greta significa contestualmente segnare anche la sua fine.