Teorizzare il genere è una follia, intervista con Laila Daianis (ass. Libellula)

Una persona transessuale sente di appartenere al genere opposto a quello in cui è nato. Si rende conto che il suo corpo lo contraddice, e ha bisogno di adeguare la realtà esterna al suo vissuto interno. Le persone transessuali desiderano poter vivere la loro vita nella dimensione sociale e affettiva a cui sentono di appartenere, desiderano poter avere un corpo che corrisponda il più possibile al proprio vissuto psicologico e dei documenti anagrafici che si accordino con l’identità di genere a cui sentono di appartenere.
Quando parliamo di persone transessuali, quindi, parliamo di identità di genere.
Il sesso indica la differenza tra le persone basata sul corredo cromosomico e la conformazione genitale. L’identità di genere designa invece il “sentimento di appartenenza” all’uno o all’altro genere, permettendo alla maggior parte di noi di dire: “Io sono un uomo, io sono una donna”, indipendentemente dal sesso anatomico di nascita.
Alcune persone, inoltre, non sentono di appartenere in maniera così rigida né all’uno né all’altro genere, e si riconoscono come transgender.
La condizione transessuale è abbastanza rara: riguarda meno dello 0.005% della popolazione mondiale. Questo vuol dire che in Italia vivono alcune migliaia di transessuali.
Per avere un parere autorevole sull’argomento, abbiamo intervistato Laila Daianis, Presidentessa dell’ associazione di volontariato Libellula. L’associazione nasce a Roma nel 1998 ispirandosi all’articolo 12 della Costituzione Italiana: “la libertà personale è inviolabile” e si riconosce negli ideali dell’articolo 3: “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, razza, lingua, religione e di opinioni politiche e di condizioni personali e sociali”. Tra gli obiettivi che l’associazione si pone c’è quello di affrontare le problematiche sociali, psicologiche, sanitarie e occupazionali legate al transessualismo e transgenderismo nella società moderna.

d. E’attivo presso le vostre sedi uno sportello di Consulenza Psicologica. Quali sono le più frequenti difficoltà che una persona transgender o transessuale racconta?
r. Prevalentemente allo sportello arrivano due tipologie di persone. Molte sono quelle che vivono una situazione di conflitto, di dubbio relativamente alla propria situazione ed a queste consigliamo sempre di approfondire la questione rivolgendosi a servizi specializzati. Ci sono molte persone invece, che arrivano con le idee chiare e che sono decisi ad intraprendere tutto il percorso psicologico medico e sanitario per cambiare sesso. Questa non è una scelta facile perciò noi offriamo il supporto psicologico ma anche quello informativo e legale. Allo sportello arrivano anche molte persone immigrate e molte dal sud italia.

d. Esistono sul territorio realtà non associative a cui vi rivolgete per integrare il vostro lavoro?
r. Da molti anni è attiva una intensa collaborazione con il servizio Saifip, specifico per l’adeguamento dell’identità fisica a quella psichica, che ha sede presso l’Ospedale San Camillo di Roma. E’ molto importante lavorare in rete con gli ospedali perché le persone che decidono di cambiare sesso necessitano delle cure di molti specialisti: dal chirurgo all’endocrinologo. Credo sia importante che per queste persone si attivi un servizio di Medicina Preventiva perché la salute è un diritto.

d. A suo parere il Disturbo identità genere, inserito nel DSM5, andrebbe tolto dall’elenco delle patologie?
r. Il transessualismo non è una patologia ma un fenomeno del tutto naturale. Tuttavia, toglierlo dalle patologie significherebbe non garantire più assistenza sanitaria alle persone che decidono di cambiare sesso da parte del Sistema Sanitario Nazionale e questo li costringerebbe a rivolgersi al privato. Sono convinta che il genere non esista ma che esistano le persone. Teorizzare il genere è una forma di lesbotransfobia: queste persone non sono malate e, proprio come per le donne in gravidanza, hanno diritto ad essere seguite a livello sanitario.

d. Un ultima domanda: tra le molte attività che realizzate con la vostra associazione, c’è anche quella del teatro dell’oppresso. Che tipi di laboratori realizzate?
r. I laboratori di teatro dell’oppresso sono aperti a tutti e si ispirano al drammaturgo che per primo diede vita a questa forma teatrale a Rio de Janeiro negli anni ’60. Il laboratorio non segue un metodo specifico perché è una forma di liberazione dalle nostre oppressioni interiori fatta attraverso il lavoro sui miti greci e soprattutto africani ed asiatici. Sta attività nasce con l’intento di combattere la discriminazione e gli stereotipi.

L’associazione è molto attiva da anni anche per abolire di ogni normativa discriminatoria relativa alla scelta di genere e all’orientamento sessuale e lotta per il riconoscimento della autodeterminazione della propria identità di genere per quanti non si identificano necessariamente con i contenuti, spesso stereotipati, dei termini o “maschio” o “femmina”.

Claudia Celentano

Foto: RAZ Zarate | Flickr | CC License