La situazione delle periferie e una speranza concreta: l’innovazione sociale

Viviamo un mondo sempre più urbanizzato. Le città si stanno espandendo costantemente e ogni anno ospitano in media 73 milioni di abitanti in più in una crescita esponenziale destinata a continuare anche nel prossimo decennio.

Il dato è ancora più incredibile se si pensa che solo 100 anni fa, l’84% di tutti gli esseri umani viveva in campagna.

La svolta storica è stata registrata nel 2007, con la maggior parte della popolazione (il 53%) che si è riversata come una valanga nelle aree urbane. (Indagine sulle periferie, Limes, 4/2016).

Partire da questi dati è fondamentale per comprendere la ‘dinamica’ vitale dietro l’enorme tema delle periferie, termine che deriva dal greco peripherein, ossia  “portare intorno”, “circonferenza”, attraverso una linea curva tracciata a partire da un ipotetico centro per demarcare i confini di uno spazio in una dimensione euclidea. Purtroppo, però, la mappa non è mai il territorio, è questo tentativo di porre un ordine al caos di questo sviluppo demografico e geopolitico si è rivelato inadeguato a cogliere la portata e la complessità di quanto sta accadendo già a partire dal secolo scorso.

La crescita ideale di quella che doveva essere la città moderna, con una crescita lineare e razionalista progettabile e governabile, si è scontrata con la realtà, ossia con uno sviluppo informe e disordinato di metropoli e megalopoli in un’alternanza tra case, campagne sempre più ridotte e insediamenti industriali.

Nel novecento si è assistito alla costruzione intensiva di quartieri a basso costo per le fasce di popolazione meno abbienti, attirate dalle città grazie a uno sviluppo industriale sempre più intenso: le periferie nascono come utopico tentativo d’integrazione e risposta all’emergenza abitativa.

Se fino agli anni ’70, c’era la speranza che questo processo fosse potenzialmente virtuoso, una una spinta positiva verso il progresso, con l’entrata in vigore ed il successivo fallimento di grandi progetti di costruzione e progettazione di quartieri distanti dal ‘centro’ (Zen, Corviale, Gallaterese, ecc.), “il concetto di periferia ha perso ogni accezione progressiva per rimanere solo l’indicatore spaziale di un disagio fatto di distanza dal centro, carenza di servizi e infrastrutture, ritardo nell’integrazione, tensione sociale, senso di emarginazione. Un luogo, insomma, dal quale si voleva fuggire appena possibile” (http://www.treccani.it/enciclopedia/la-fine-delle-periferie_(XXI-Secolo)/).

In questo processo, si è sviluppata una radicale sconnessione tra l’uomo e il suo habitat, con il cittadino che ha perso ben presto un rapporto personale e comunitario con il proprio quartiere che di fatto non gli appartiene, vivendo in uno spazio che non sente come proprio.

Ci sono studiosi, come David Harvey, che affermano che la crescita delle città è spesso avvenuta per rispondere non a problemi umani (se non col fatto di creare occupazione) quanto per assorbire un eccesso di capitale.

E la crisi delle periferie ha messo in discussione anche l’idea stessa di centro: se un tempo era facile identificarlo con il potere, ora diviene un polo sempre più incerto, frammentato, a volte invisibile.

Per tali motivi, a partire dagli anni ’80 si è cominciato a parlare di riqualificazione, anche qui tradotta però solo nella produzione di edifici ‘icona’ che non hanno quasi mai avuto un impatto rilevante sulle comunità locali.

Oggi si parla invece di rigenerazione. P. Roberts definisce la rigenerazione urbana come “un approccio integrato composto da visione e azione che conduce alla risoluzione di problemi urbani e che aspira ad ottenere un miglioramento duraturo delle condizioni economiche, fisiche, sociali e ambientali di un’area che è stata soggetta a cambiamenti o offre le delle opportunità di miglioramento”.

(P. Roberts, H. Sykes, Urban regeneration: a handbook. Sage, 1999. II ed. P. Roberts, H. Sykes, R. Granger, Urban regeneration: a handbook. Sage, 2016)

Con una crisi economica che rende gli interventi urbanistici insostenibili da un punto di vista economico e impossibili gli investimenti su servizi sociali e sanitari che riescano realmente a rispondere ai disagi complessi dei cittadini, viene naturale chiedersi: siamo senza speranze? 

Per fortuna no, perché in questo campo “le esperienze sembrano correre più veloci delle teorie” (A. D’Elia, I barbieri, il punk e l’innovazione sociale, in C. Andorlini, L. Bizzarri, L. Lorusso, a cura di, Leggere la rigenerazione urbana. Storie da “dentro” le esperienze, Pacini Editore, Pisa, 2017),  e nell’ultimo decennio si è assistito al proliferare di esperienze di innovazione sociale, in cui la cittadinanza si è attivata concretamente, questa volta in sinergia con associazioni, università e amministrazioni virtuose. Iniziative basate su un approccio multidisciplinare, attento a intercettare i bisogni delle persone e a coinvolgerli concretamente nella progettazione e realizzazione di interventi negli spazi del proprio quartiere.

Nuova utopia? Sembra di no, perché sono progettualità spontanee che riescono a nascere senza risorse: iniziative resilienti, perché basate sulla ricostruzione di un rapporto reale tra le persone e il proprio spazio di vita vissuta. Progettualità che lavorando sull’identità e l’appartenenza delle persone ad un determinato habitat, vanno a rigenerare l’identità stessa di un quartiere, al di là di astratte ideologie. Giambellino-Lorenteggio e San Siro a Milano, Officine Zero e Largo Perestrello a Roma, Piazza Gasparotto a Padova, Favara e San Berillo in Sicilia, sono esempi di questi nuovi processi che hanno una caratteristica comune importante: cittadini e professionisti parlano tra loro e collaborano attivamente.

E qui sta la concretezza dei processi di una vera innovazione sociale. Ovvero non un processo in più da appiccicare alla vita di un quartiere, bensì un nuovo modo, radicale, di rilegare persone, professionalità e risorse in un’epoca sempre più incerta e precaria.