Mentre preparavamo il numero di Natale è arrivata la notizia, spaventosa e inaspettata, degli attentati di Parigi. E il giornale che state leggendo ha dovuto subire una radicale trasformazione.
Pensavamo a un numero natalizio, leggero e vario, di cui rimane traccia nella seconda parte (niente paura, è pur sempre Natale!) ma come non parlare della strage al Bataclan e dei suoi terrificanti strascichi? Parliamo di paura, anche per esorcizzarla; perché discuterne può essere terapeutico; perché talvolta ci si sente come bambini davanti a un film dell’orrore: chiudiamo gli occhi per non vedere ma sappiamo che l’unico modo per superare la paura è guardarla in faccia e provare a interpretare i fatti. Per non cedere ai mostri né al sonno della ragione.
Respiro affannoso, battito accelerato, tremori e sudori freddi: quando l’adrenalina entra in circolo, chiunque sa riconoscerne i segnali corporei. Malfamata e indesiderata, la paura in realtà è necessaria alla sopravvivenza. È un’emozione basica inscritta nel nostro Dna. Serve a metterci in guardia. Sin da quando eravamo la preda inerme del leone di turno, la paura induce le risposte di attacco-fuga di fronte all’incombere di un pericolo. E può salvarci la pelle. Ma la paura può anche diventare diffusa, farci perdere controllo e capacità di valutazione. Può essere un’ansia interiore e costante, uno stato di angoscia ingovernabile.
In un saggio del 2008, il sociologo Bauman parla di “paura liquida”: anche se viviamo in un mondo molto più sicuro dei nostri antenati, per uno strano meccanismo psicologico, la ricerca costante ed ossessiva della sicurezza non elimina la paura ma porta ad incentivarla. «Contrariamente all’evidenza obiettiva, sono coloro che vivono in un agio mai conosciuto prima, che sono più coccolati e viziati di chiunque altro nella storia, a sentirsi più minacciati, insicuri, spaventati, più facili al panico e più attratti da qualsiasi cosa abbia a che fare con la sicurezza e l’incolumità, rispetto alla maggior parte delle altre società del passato e del presente». La paura arriva nelle nostre case attraverso i notiziari, è il messaggio sottinteso delle porte blindate e delle telecamere nelle nostre strade, dei posti di blocco e dei metal detector negli aeroporti e nelle stazioni. Più alziamo ponti levatoi e più ci accorgiamo di essere potenzialmente in pericolo. Gli attentati di Parigi, a inizio e a fine di quest’anno, così come quelli dell’11 settembre 2001, non hanno fatto altro che confermare la vulnerabilità di un Occidente smarrito. Purtroppo bisogna dare ragione ad Assad quando ha dichiarato che «la Francia ha conosciuto ciò che viviamo in Siria da 5 anni». Assad è tra le cause del terrore dei siriani, ma la sua verità è inconfutabile.
Pensavamo di essere intoccabili, ci riscopriamo facile bersaglio di nemici invisibili. Non sappiamo dove e quando il “nemico” potrebbe colpirci e l’incertezza e l’ignoranza della minaccia creano panico. Cerchiamo allora soluzioni semplici a problemi complessi. Inventiamo streghe e untori. Il sociologo tedesco Sofsky scrive che «non appena il bisogno di sicurezza prende il sopravvento, gli oneri della prova vengono semplicemente rovesciati […]. Si attribuisce a priori una minaccia a ogni novità fino a quando la sua innocuità non sia stata definitivamente dimostrata […]. Benché non sia neppure possibile verificare se il rischio effettivamente sussista, l’agitazione è grande. Perché nulla appare più minaccioso dell’incertezza». Sembra di piombare nel racconto di Kafka “La tana“, dove un animale, terrificato dall’idea di essere aggredito, si spertica per costruire un rifugio inespugnabile. Eppure, quanto più vi lavora tanto più cresce la sua ansia, si insinuano dubbi sulla robustezza dei muri, la solidità degli sbarramenti, il modo in cui potrebbe infiltrarsi qualcuno. Infine, esasperato, esce allo scoperto, preferendo un nemico visibile a uno invisibile.
Ora che la paura si è materializzata in un nemico definito, ora che i tartari sono “finalmente” alle porte, l’Europa – preda della paura nei confronti dell’islam – rischia di reagire in modo violento, provocando un duplice paradosso: da una parte la paura dei barbari rischia di trasformare noi stessi in barbari; dall’altra rende il nostro avversario più forte. Si potrebbero invece tenere gli occhi aperti davanti all’orrore. E provare a non farci confondere né dal terrore né da chi ne fa un business.