Dal terreno si alzava in continuazione sabbia mista a polvere, soprattutto nei mesi più caldi. Ti entrava nelle narici e invadeva le vie respiratorie. Dovevi fare attenzione a non inspirare in quei momenti se non volevi iniziare a tossire, ma il fiato corto rendeva le cose più difficili, così, qua e là nel campo, si sentivano continui colpi di tosse di ragazzi con la faccia rossa e in ipoventilazione. Del resto non era una novità. Dieci mesi all’anno il nostro campo diventava come la testa di Zidane, con un po’ di erba ai lati e il deserto in mezzo, e i due mesi estivi in cui potevi vedere un bel manto erboso distendersi omogeneo su tutta la superficie, lo potevi solo “vedere” appunto. Era vietato entrarci. Poi, ad ottobre, bastava che qualche adulto organizzasse una partita per far tornare tutto come prima. Forse è anche per questo che io giocavo in fascia, per sentire la sensazione del pallone mentre scorre sull’erba. O forse perchè ero più vicino alla rete oltre la quale, ogni tanto, veniva a vedermi qualcuno, a volte perfino qualche ragazza che mi piaceva. Peccato che noi non si facesse altro che perdere.
Ogni anno l’allenatore organizzava un paio di partite contro qualche squadra di società o patronati vicini. In quelle occasioni l’eccitazione saliva alle stelle. Negli spogliatoi, prima di iniziare, eravamo euforici. Erano le partite delle uniche volte. L’unica volta in cui ci si metteva i parastinchi. L’unica volta in cui si giocava con il gel nei capelli. Ma soprattutto era l’unica volta in cui indossavamo la divisa – maglia blu con righe gialle sulle spalle e pantaloncini con i colori invertiti – rigorosamente in lana nonostante si giocasse in estate.
“Io voglio il 10! Io il 7. No, il 28 no dai, che numero è?! Dai Gianni il 4 fa schifo. Va bene l’8”. Ignoravamo come sarebbe stato il nostro umore al rientro durante l’intervallo. E ignoravamo ancora di più come ci saremmo sentiti al termine della partita e anche questa volta, si sapeva, non avrebbe fatto eccezione. Si stava perdendo tanto a poco, inutile tenere a mente il risultato. Noi ragazzi di patronato eravamo trote d’allevamento rispetto a quei pesci allenati in natura. I nostri denti erano ancora da latte; tra i loro invece, se ci facevi caso, potevi trovarne qualcuno già d’oro. Da noi in difesa c’era Luca della quarta elementare chinato a terra, intento a costruire piccoli castelli di sabbia, mentre loro in attacco avevano un certo Giuly, un ragazzotto di colore che a dieci anni era alto già un metro e settantacinque e portava un quarantatrè di piedi. Eppure cazzo avevamo la sua stessa età. Si potrebbe pensare che non avessimo talento, ma non era così. C’era più di qualcuno con i piedi buoni e in attacco eravamo perfino forti con Paolino e Tisy. Era da vederli. Paolino, fantasista della squadra e un po’ cicciottello, aveva un gran bel tiro. Quasi alla Roberto Baggio. Solo la corsa non gli si addiceva molto, come del resto a tutti i migliori numeri dieci del calcio. Tiziano invece, Tisy per sua madre e per tutti, correva proprio veloce e quando dal terreno si alzavano nuvole di polvere e sabbia, riusciva ad intrufolarsi bene tra gli avversari più grossi di lui. La torre della squadra era Stefano, l’unico con una stazza che gli permettesse di competere con quella degli avversari. Peccato non potessimo confidare troppo sui suoi piedi.
Io me la cavavo abbastanza. Anzi, ero quasi sempre titolare. Un po’ perchè il resto della squadra era molto scarso e un po’ perchè l’allenatore era mio padre. E un po’ perchè comunque ero bravo. Correvo tantissimo e recuperavo molti palloni. Ripensandoci ora non mi viene in mente un episodio in cui avessi davvero il fiatone. Il mio colpo forte erano i tiri di collo esterno e quando inquadravo la porta, e la inquadravo spesso, era difficile che me li parassero. Ma non sono sempre stato così. I primi anni, nelle partite tra di noi, riuscivo a toccare palla si e no quattro volte. Non me la passavano mai. Da fuori si poteva sentirmi urlare in continuazione “passaaa! passaa! Sono qui passaaa!” ma niente da fare. A casa i miei genitori la buttavano sul ridere con mio padre che mi imitava bonariamente. Poi, non so con precisione quando e come, ma credo decisi di non chiedere più palla a nessuno. Andavo a prendermela direttamente, anche dai piedi dei miei compagni se necessario, fino a quando anche loro iniziarono a passarmela sempre più spesso.
Il nostro campo era lungo circa sessanta metri, per cui si poteva giocare massimo in otto contro otto, con in panchina almeno altri dieci ragazzi che si lamentavano in continuazione con mio padre perché li facesse entrare. Lo facevano andare su tutte le furie, ogni volta.
A volte era anche divertente da vedere. Lui rimaneva sempre allibito quando, una volta in campo, questi nanerottoli dimostravano la loro più elevata incapacità di giocare a calcio. Sbagliavano tutto. E quando dico tutto, dico tutto. Ma ciò che faceva veramente incazzare mio padre era che a loro non gliene fregava davvero un cazzo. Bighellonavano per il campo con le braccia stese lungo i fianchi, troppo lunghe per la loro statura. Se ricevevano palla la lisciavano o finiva sempre agli avversari. Se venivano scartati non rientrava nei loro programmi sforzarsi di recuperare. In quei momenti potevi vedere la faccia di mio padre diventare rossa, quasi sul punto di esplodere. Quasi. Raggiungeva il culmine quando, messi in campo più di uno di questi esemplari, tra l’altro grandi amici tra di loro, si fermavano a centrocampo a parlare e scherzare. Lì sì che iniziava il vero spettacolo, con mio padre ad inveirgli contro in tutti i modi possibili. Quasi sempre c’andava giù troppo pesante, ma i genitori non se ne sono mai lamentati, non so il perchè. Io in quei momenti mi trovavo un po’ a disagio. Avrei voluto ridere come tutti gli altri da un lato, e dall’altro mi dispiaceva vedere come lui andasse in difficoltà di fronte alle prese in giro dei miei compagni. Ma la verità è che ci teneva veramente. Non so se gli interessasse di più vincere, fare bella figura, dimostrarsi qualcosa o altro. Forse semplicemente era un amante del calcio. Uno dei momenti più belli era quando, qualche giorno prima della partita, si metteva in cucina a scrivere e riscrivere le possibili formazioni. A lato del foglio metteva tutti i nostri nomi e disegnava un piccolo schema come i veri allenatori di serie A. Poi, quando si era fatto più o meno un’idea, veniva da me a leggermi la formazione imitando i telecronisti degli anni 80′ e 90′, elencando i nomi con la bocca stretta e tutti di fila. “In porta Pinne! In difesa: Rocco, Luca, Manlio. In fascia: tu a destra, Mattia a sinistra. In attacco Paolino e Tisy”. Ma il nostro campo era troppo piccolo, così la linea di centrocampo si trovava a soli dieci metri dall’area di porta e, dopo il fischio d’inizio, ogni schema andava in malora e allora potevi vedere solo uno sciame di selvaggi correre dietro il pallone, fra nuvole di polvere e sabbia e in panchina la faccia tutta rossa di mio padre.
Anche in allenamento, del resto, le cose non cambiavano molto. Oltre a mio padre c’era Adriano ad allenarci. Non ho mai capito il rapporto tra loro due. Mio padre ci teneva ad insegnarci qualcosa, per lo meno i fondamenti del calcio, quindi ogni lunedì e mercoledì, prima di dividerci in squadre, ci faceva correre, palleggiare, crossare e tirare. Ad Adriano, invece, non gliene fregava un granchè di noi così, una volta in campo, portava via tutti i palloni tranne quello per la partita, generando il caos totale. Spesso lo faceva mentre mio padre stava mostrandoci qualche schema o qualcosa di simile, facendolo incazzare alla grande. Eppure l’uno aveva bisogno dell’altro. Mio papà perchè, non potendo stare lontano dal campo da calcio, coglieva l’occasione per giocare con noi, mentre Adriano poteva risparmiarsi lo sbattimento di starci dietro. Il paradosso è che l’unico ad essere pagato era proprio lui.
Quella partita è venuta anche Claudia a vedermi. Claudia era la ragazza dei miei sogni – bionda, simpatica, con un bel sorriso. Non credevo l’avrei vista e invece ad un tratto era lì e mi guardava, senza una particolare espressione in volto. Non capivo se le piacesse la partita, se le facesse schifo come giocavo o se mi stesse guardando e basta. Naturalmente da quel momento provai a segnare in tutti i modi. Ogni volta che, avendo tirato, indietreggiavo fino a centrocampo, mi fingevo disinteressato, lanciandole solo qualche breve occhiata. Alle volte, quando mi avvicinavo alla linea laterale, eravamo a meno di un metro di distanza, con la sola rete a dividerci. In quei momenti pensavo che allungando la mano avrei potuto toccare le sue dita aggrappate ai fili di ferro, ma non lo facevo mai.
Poi non ricordo bene come fosse stato possibile, ma ad un un minuto dal fischio finale eravamo, per la prima volta, sotto di un solo goal contro una squadra di società. Per l’eccitazione mio padre si era perfino tolto il berretto di lana, i genitori sugli spalti facevano un chiasso tremendo, con la mamma di Tisy ad urlare a squarciagola. Anche l’allenatore avversario si era visto costretto ad alzarsi dalla panchina per incitare i suoi ragazzi. Ma ecco che un’incomprensione tra Paolino e Stefano consegna la palla agli avversari che in pochi passi si riversano nella nostra metà campo. Giuly, il ragazzo di colore, impossessatosi del pallone molla un tiro talmente forte che il nostro portiere si nasconde dietro al palo per la paura.
Ma il pallone sembra voglia inseguirlo e sbatte con violenza sul suo ginocchio sinistro che era rimasto scoperto, tornando indietro tra i piedi di Paolino, che si gira e inizia a correre il più veloce possibile, cioè a passo d’uomo. E’ il caos totale. Mancano pochi secondi, e quattordici selvaggi si proiettano all’impazzata verso la porta opposta, alzando una nuvola di polvere che si espande verso la tribuna laterale. Perfino Tisy non si orienta più e non si accorge di correre verso la panchina. Senza esitare scatto in fascia e corro a più non posso. Corro e non penso a nulla. Corro senza pensare più a Claudia, alla sabbia e al berretto di lana di mio padre. Questa volta urlo e chiedo palla. La ricevo, avanzo di qualche metro e la passo in centro dove, da una nuvola sempre più fitta, inizia a distinguersi una sagoma blu e gialla, quella di Paolino. I genitori si infiammano, gridano, incitano e si stringono in un abbraccio di vera speranza – questa volta ce la possiamo fare! Ma un momento. Non è Paolino. E’ Stefano, la torre dal piede sbilenco. La gente sulle tribune ora vuole solo morire. Stefano, le scarpe ai piedi entrambe slacciate, arriva e tira, senza guardare, anche perchè con tutta quella polvere non sarebbe servito a molto. Sugli spalti restano solo le forze per un nooo generale di delusione, perfino di sua madre che si chiede perchè diavolo proprio suo figlio abbia ricevuto palla. Ma il pallone, incurante di tutti i disillusi, inizia il suo percorso, senza chiedersi se chi lo ha colpito abbia i piedi buoni o meno.
Con le mani sugli occhi ora tutti seguono la traiettoria di questo miscuglio di cuoio e sabbia che dal terreno inizia ad alzarsi lentamente, avanzando verso la porta. Il patronato si ammutolisce. I credenti appena usciti dalla chiesa di fronte al campo si fermano di colpo. Le campane delle cinque rimangono sospese in aria ancora un pò. Il pallone sfila tra i piedi di alcuni giocatori, oltrepassa calzoncini, maglie di lana, chiome di capelli piene di gel. Incurante di tutto procede dritto verso l’incrocio sinistro della porta, senza rallentare, senza esitazioni, quando dalla nuvola di polvere e sabbia esce un guanto che devia il pallone quel tanto che basta per mandarlo sopra la traversa. Al fischio dell’arbitro di tutto questo rimane solo la polvere sospesa in aria e il portiere avversario ancora in tuffo.
Uscendo dal campo ci siamo diretti verso il patronato con la consapevolezza che, adesso, avremmo dovuto fare i conti con il rientro nello spogliatoio. C’era chi rovesciava le sedie, chi imprecava con parolacce non troppo spinte, chi invece rideva perchè non gliene fregava niente. Io sono rimasto seduto a pensare. Di Claudia fuori ad aspettarmi non mi interessava più nulla, così come della premiazione con le solite medaglie riciclate e dell’applauso dei nostri genitori. Ho continuato a pensare a quella parata senza essere particolarmente triste, sconsolato, allegro o altro. Più pensavo e più mi era chiaro il vero problema delle squadre come la nostra. Non era l’attacco, né la difesa. Non era neanche la mancanza di schemi. Il vero problema delle squadre come la nostra era il portiere. Appartengono a due categorie i portieri. Nella prima ci sono i ragazzi delle squadre di società, dove qualche piccoletto sembra davvero l’uomo ragno, si tuffa anche sul cemento e indossa una divisa con i paracolpi anche d’estate. L’altra categoria è composta da quei ragazzi che non sanno correre, tirare, difendere, attaccare, crossare, dribblare. Non sanno fare un cazzo insomma, ma visto che vogliono stare in compagnia o, ancora peggio, i genitori credono debbano fare dello sport, appena entrano in un campo da calcio sanno già che la porta è l’unico posto dove andare. Il posto in cui non andrà mai chiunque sappia correre, tirare, difendere, attaccare, crossare, dribblare. A volte, quelli della seconda categoria, ci provano anche a chiedere “Posso uscire? Chi mi da il cambio?”, ma il patto è solo uno. O in porta o non giochi. Ecco, il nostro portiere faceva parte della prima categoria. Era un vero felino, le parava tutte. A volte potevi lasciare che l’avversario tirasse perchè sapevi che lui aveva già intuito dove buttarsi. Poi, un giorno, fu contattato da alcuni osservatori di una squadra di società e se ne andò. Da lì in poi solo portieri della seconda categoria. Ecco il vero problema delle squadre di patronato. I portieri forti sono sempre nell’altra metà del campo.
Daniele Pirozzi