Shared borders: condividere spazi e limiti

Gli edifici pubblici in disuso a Roma costituiscono un patrimonio che si aggira intorno ai 50 miliardi di euro. Molte di queste strutture sono spazi ex industriali, altre sono edifici in abbandono o in stato di occupazione abitativa. “Shared borders, da edifici pubblici in disuso a beni comuni” è un progetto condotto da studenti e ricercatori dell’Università Roma Tre, che ha fatto emergere come il riutilizzo di edifici pubblici, senza un preciso utilizzo istituzionale, può essere ispirazione per giovani architetti e incubatori di cultura.

“In molte città d’Italia un edificio abbandonato e incastonato in una zona centralissima è l’ennesima occasione perduta”, sottolinea Nicola Moscheni, uno dei ricercatori di Roma Tre. Il progetto nasce da un contatto da parte del collettivo Action e di Spin Time Labs che, nel 2012, ha occupato un ex edificio per uffici dell’INPDAP, in via Santa Croce in Gerusalemme. Il collettivo ha cercato un contatto con l’Università per richiedere una spinta all’autonomia energetica e alla legittimazione dell’esperienza abitativa.

Questo contatto ha portato ad un intere se di ricerca in cui l’esperienza disoccupazione è stata motivo di studio, portando alla collaborazione e aduna coabitazione tra studenti e abitanti di Spin Time. All’interno dell’edificio oggetto della ricerca vivono più di trecento persone, italiani e stranieri, che convivono in spazi che hanno adattato alle loro esigenze in modo spontaneo; centoquaranta nuclei familiari hanno trasformato questi uffici in appartamenti e servizi per tutti gli abitanti dell’occupazione e per i cittadini che vogliono utilizzare la palestra, ristorante, spazio concerti, in uno spirito di comunità, mantenendo l’idea di sostegno a esperienze di crescita collettiva attraverso coabitazione urbana multiculturale.

Il gruppo di studenti e ricercatori dell’Università di Roma Tre, coordinati dalla professoressa Chiara Tonelli, docente di Tecnologia dell’Architettura, ha approcciato all’occupazione abitativa considerando l’esperienza come forma spontanea dell’abitare e come un fenomeno da rilevare da vari punti di vista. La squadra di lavoro, formata da Barbara Cardone, Luigi Mammone, Nicola Moscheni, Sara D’Arcangeli, Francesco Della Rocca, Lorena Di Bari, Marco Gesmini, Ilaria Grossi, Cristiana Lauri, Cecilia Mattera, Matteo Molinari, Andrea Piattella, Giulia Zambon, con le foto di Giovanni Barba e insieme alla curatrice Ilaria Montella, hanno vissuto a stretto contatto con gli abitanti di Spin Time per sei mesi circa.

In vari momenti hanno rilevato con questionari e colloqui le aspettative e l’auto-organizzazione che le persone dell’occupazione intendessero come fattori fondamentali per il benessere comunitario. Un anno di progetto è stato scandito da varie fasi: dalla progettazione, al rilievo, all’incontro con gli abitanti, alla mappatura sul territorio di altre esperienze di occupazione di spazi pubblici centrali della città di Roma. Il lavoro è diviso in due parti principali: una prima costituita da una ricerca storico antropologica sulla questione dell’emergenza abitativa, con particolare attenzione al modello Spin Time Labs, e una seconda nella quale si sviluppa una strategia d’intervento per risolvere i problemi riscontrati nella fase di ricerca.

Il rilievo e la mappatura hanno portato a far riflettere il gruppo di ricerca su alcune questioni: “sono oltre cento le occupazioni a scopo abitativo nella capitale e si arriva a centoquaranta se si considerano anche tutte le altre tipologie di occupazioni (culturali, ricreative, politiche), risulta perciò naturale interrogarsi su come si sia venuta a formare questa “Città Informale”, una realtà parallela alle istituzioni”. L’intento dei ricercatori e delle realtà che affrontano le questioni legate all’abitare popolare è il verificare, attraverso un modello di riqualificazione, una formalizzazione del modello considerato “informale”di abitazione comunitaria realizzata in strutture “riusate”dai cittadini a scopo abitativo. Un modello che corrisponda in maniera calzante ad esperienze di comunità multiculturali, come quelle che si verificano in una occupazione abitativa, con caratteristiche peculiari che potrebbero influenzare tutto il modo di progettare e abitare l’idea di casa. Lo scopo della ricerca è riuscire a indagare un modello spontaneo come quello delle occupazioni, per estrapolarne un approccio innovativo verso quegli spazi della città che vanno riattivati. L’emergenza casa, così detta, non riguarda un’emergenza sociale momentanea ma è frutto di politiche abitative che, per quel che riguarda il comune di Roma, hanno via via delineato una situazione davvero paradossale, in cui per decenni il rapporto con i cittadini si è degradato. Quindi, le difficoltà risiedono nel ripensare una situazione paralizzata e affrontata dai cittadini e dalla politica territoriale. Accanto a questo, c’è il problema della gentrificazione, fenomeno internazionale che accomuna tutte le metropoli, che indica l’insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un’area urbana, generalmente quartieri popolari o abitata dalla classe operaia, risultanti dall’acquisto in tali zone da parte di popolazione benestante.

Questo produce lo svuotamento dei centri urbani e lascia in abbandono alcuni edifici storici, il cui utilizzo rimane completamente da ripensare. La mostra “Shared Borders: da edifici pubblici in disuso a beni comuni”, si è svolta all’interno della Biennale Spazio Pubblico 2017. Gli intenti dell’esperienza “Shared Borders”ha come tema centrale il recupero degli spazi abbandonati, come soluzione alternativa all’espansione incontrollata delle periferie, una soluzione che permetta allo Stato di sfruttare il patrimonio pubblico di cui dispone. “Di fatto si tratta edifici sottratti all’utilizzo collettivo”, affermano gli studenti di Roma Tre, “che per interessi privati, difficoltà nel riassetto o per incapacità e disinteresse delle amministrazioni stanno cadendo in rovina. Spazi ed edifici che, se riqualificati, potrebbero tornare alla loro originale attività o ad un nuovo indirizzo a scopo sociale, imparando a mettere a frutto il patrimonio già esistente. Un primo passo potrebbe rappresentare quello di procedere al censimento degli spazi disponibili e fare tesoro dell’esperienza delle associazioni, già coinvolte in operazioni di questo tipo, per valutare il possibile uso sociale e la valorizzazione di tali beni”.