Libere nella vittoria e nella sconfitta

Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà

fosse una loro concessione
e ringraziassi e obbedissi.
Ma io sono libera prima e dopo di loro,
con loro e senza loro
sono libera nella vittoria e nella sconfitta.
Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
e io glielo lascio credere
e avvengo. 

Joumana Haddad  

 

 

L’internamento manicomiale è un fenomeno che ha riguardato uomini e donne. Tuttavia, assume caratteristiche profondamente diverse per i due sessi quando è messo in relazione con le cause che lo produssero, con le conseguenze provocate nelle vite individuali, con il valore che l’ambiente sociale attribuiva a tale esperienza. Differente era, inoltre, il sapere psichiatrico sulla follia degli uomini e delle donne. Durante il grande internamento manicomiale che si verificò tra i secoli XIX e XX, i ricoveri femminili avevano una loro tipicità legata ai rapporti di potere tra i generi e a come essi erano vissuti dalle donne. Questi elementi risultarono marginali nel pensiero medico dell’epoca, fortemente influenzato dalle idee lombrosiane volte a dimostrare l’inferiorità biologica, mentale e sociale della donna. A quell’epoca, il sapere psichiatrico si vantava di saper sapientemente spiegare e rimandare la devianza, il disagio, a una dimensione organica. Ed era proprio a livello organico che la donna, per la scienza psichiatrica del tempo, presentava dei limiti particolarmente sfavorevoli: “per la costituzionale debolezza psico-nervosa nelle funzioni più elevate, e per l’instabile temperamento, è forse la donna, a parità di condizioni, più dell’uomo volta ad impazzire” 

Già molto è stato scritto negli ultimi anni per decostruire lo stereotipo che riconosceva la “femminilità” nella natura emotiva e sensibile delle donne e nella loro naturale propensione a realizzarsi ed esaurirsi nella maternità; altrettanto indagato è stato il nesso tra questo stereotipo e il sapere psichiatrico. La psichiatria di fine Ottocento arricchì con argomenti scientifici, caratterizzati da una presunzione di certezza, la rappresentazione del femminile comune all’epoca: folli, pazze, isteriche, erano, allora, prima di tutto le donne che attraverso la propria malattia, esprimevano una trasgressione ai valori “naturali” del genere femminile. La costruzione sociale di una “natura femminile”, pesò principalmente proprio nella definizione del confine tra normalità e anormalità. La dicotomia tra ragione e emotività, tra uomo e donna servì a sostanziare l’idea che vi fosse una biologica inadeguatezza delle donne, “giustamente” ripiegate sulla loro funzione di madri, nell’ambiente domestico. Le donne non avevano, per gli psichiatri del tempo, gli strumenti per “essere” nel mondo in rapida trasformazione di fine Ottocento. 

Ma quali erano le donne che venivano internate in manicomio? Nell’ultimo ventennio del XIX secolo le donne in stato vedovile erano la categoria che al suo interno conosceva il maggior numero di internate. Dai documenti reperiti in alcuni manicomi italiani, emerge un sommerso nel sommerso: accanto ai combattenti traumatizzati dall’esperienza della Grande Guerra, troviamo il dolore periferico di madri, sorelle, figlie, mogli. Un microcosmo femminile lacerato dall’esperienza bellica, irrimediabilmente compromesso nei suoi equilibri e che racconta, attraverso i fascicoli personali delle donne ricoverate in manicomio, la disintegrazione psichica prodotta dalla guerra che invece si tendeva a ricondurre esclusivamente ai combattenti. Tutte le donne affrontarono per molti anni la loro guerra e non tutte riuscirono a uscirne indenni negli equilibri psichici.  

Nel 1916, ad un anno dall’inizio della Prima Guerra Mondiale, la psichiatra Maria Del Rio, in servizio al frenocomio di Reggio Emilia, affrontò la delicata questione delle malattie mentali della donna in rapporto alla guerra in un saggio che ne scandagliava i diversi aspetti. Del Rio riconosceva che “le emozioni sono capaci di produrre disturbi psichici di varia intensità” ma finiva poi per uniformarsi all’interpretazione dominante della psichiatria di allora, affermando che “non bastano da sole le emozioni a produrre malattie mentali; insieme ad esse deve concorrere un fattore endogeno congenito od acquisito, che rappresenta il terreno propizio per lo sviluppo delle psicosi”. Altri studiosi dell’epoca indagarono le correlazioni tra l’alto numero delle vedove in manicomio e le loro condizioni sociali:nella donna, le gravi condizioni inerenti allo stato vedovile fanno risentire, più che nell’uomo, le conseguenze tremende della funzionalità cerebrale. La donna nello stato vedovile quasi sempre si dibatte nelle questioni finanziarie, lasciate insolute dalla morte del marito, e più spesso anche nella preoccupazione del sostentamento alla vita, che coi nostri ordinamenti sociali per la massima parte dipende dalla produzione del lavoro maschile”. 

Dal punto di vista quantitativo il grande serbatoio degli internamenti manicomiali femminili era costituito anche dalle donne che trasgredivano la morale sessuale corrente, da quelle che volevano affermarsi nelle professioni (le maestre, per esempio), dalle artiste, dalle viaggiatrici, dalle bambine “vivaci”.  Le fo donne, ultimamente portate alla luce da alcune studiose, il manicomio diventa osservatorio privilegiato dal quale partire per analizzare i modelli culturali che hanno costruito la devianza femminile e che durante il ventennio fascista furono subdolamente adattati alle esigenze del regime. Ma la paura che le donne possano “intaccare il patrimonio biologico e morale dello stato non termina con la caduta del regime.  

E la storia delle donne internate nei manicomi è ancora tutta da scrivere, da raccontare, da ascoltare finalmente attraverso la loro voce. Contro un universo maschile che ha preteso di caratterizzare le donne senza rivolgersi mai a loro. Perchè anche attraverso l’internamento, la società patriarcale ha potuto opprimere bambine, figlie, mogli, madri, sorelle. Il manicomio di queste donne è iniziato fuori dalle mura manicomiali ed ha trovato all’interno di queste la massima espressione della sua violenza. 

Le fonti ci restituiscono un’immagine di queste donne fortemente segnata dalla povertà ma anche dalla solitudine. Si tratta di donne orfane, nubili che, spesso a causa della struttura del mercato del lavoro femminile, fortemente caratterizzato da attività precarie, poco qualificate, incerte e dal generale persistere di retribuzioni più basse rispetto agli uomini, apriva la strada alla pratica della prostituzione.   

Anche l’isteria era una delle cause più ricorrenti dell’internamento manicomiale femminile. Nell’ultimo ventennio del XIX secolo ad esempio, furono condotte nel manicomio romano “Santa Maria della Pietà” circa trecento donne a cui fu diagnosticata l’isteria, vale a dire quasi il 10% del numero complessivo di internate nello stesso periodo. Ciò che fece la fortuna di questa forma morbosa fu proprio l’ampia gamma di possibilità che offriva di risolvere in termini scientifici, medici e, quindi, tra le mura manicomiali, una poliedricità di casi, comportamenti, stili di vita femminili e di legarli, così, solo in seconda battuta alle evidenti contraddizioni sociali ed economiche del tempo.  

Il punto di partenza, il luogo dove si combinavano gli eventi significativi per i destini successivi delle donne che venivano internate in manicomio era la famiglia. Gli anni del fascismo erano quelli in cui i manicomi servirono spesso a contenere quanti erano improduttivi e quindi di peso all’interno delle famiglie dei ceti popolari. Negli ultimi due decenni dell’Ottocento furono internati al S. Maria della Pietà circa trecento bambini e bambine sotto i 15 anni. Per quanto riguarda le bambine, nelle cartelle cliniche rimaste, i motivi che giustificavano l’internamento manicomiale erano, prevalentemente, la deficienza etica e l’amoralità. In alcuni casi, poi, si faceva più esplicitamente riferimento all’impossibilità, per le famiglie povere, di tenerle a casa, specie se di “carattere irrequieto”. Il manicomio era dunque una delle varie forme attraverso cui si esprimevano i rapporti di forza tra i generi all’interno delle reti sociali degli individui, anzitutto in quelle familiari. 

In quel periodo inoltre, la propaganda fascista mirava a mostrare e pubblicizzare un’immagine della donna come elemento portante della famiglia e della società: la sua funzione era quella di riprodursi il più possibile, per alimentare quel materiale umano che era la ricchezza più grande della patria. Con l’irrigidirsi dei confini che definivano la “devianza” sociale, tutte le donne che non volevano aderire a quel modello erano destinate ad essere internate. Per questo, altra categoria di donne che finiva tra le mura dei manicomi era quella delle “madri snaturate”, quelle cioè che per loro natura o per cause intervenute successivamente, non erano state in grado di assolvere ai compiti materni. La stessa etichetta veniva affibbiata alle donne che soffrivano di depressione post partum o manifestavano la volontà di non volere figli. Erano le famiglie stesse che chiedevano alle istituzioni manicomiali di curarle, per riportarle ai ruoli che avevano abbandonato, per farle “tornare in loro”. Del resto, già a partire dal discorso dell’ascensione del 1925, Mussolini aveva affermato che l’unico ruolo della brava donna fascista era quello di madre.  

Attraverso le storie di queste 

 

Immagine: La morte nella stanza della malata – Edvard Munch