
Il nostro viaggio alla ricerca di una definizione di gioco che davvero ci soddisfi continua (l’avevamo interrotta momentaneamente qui), ma possiamo dire di essere ormai quasi giunti ad una possibile conclusione accettabile (almeno per il momento!). C’eravamo lasciati ricordando che in un gioco è fondamentale apprendere il sistema di punteggio, che sostanzialmente determina chi ha vinto e chi ha perso. L’ultimo punto che vale la pena prendere in considerazione riguarda l’eventuale struttura matematica di un gioco.
I giochi, si sa, hanno qualcosa di matematico al loro interno, si percepisce che qualsiasi mossa noi facciamo sia già stata in qualche modo già “calcolata”, o comunque “prevista” e “studiata” da qualcuno prima di noi. Dunque, è evidente che esista una struttura matematica in un gioco, e se da una parte sono sicuro di poter affermare che esista (basta giocare ad un gioco qualsiasi di Reiner Knizia), dall’altra non posso affermare che esista davvero in tutti i giochi esistenti. Forse esiste davvero un modo matematico per vincere ai giochi, e forse non esiste per tutti i giochi. Va da se che a farne le spese, in un discorso simile, sia la nostra “creatività”, l’umanità che tentiamo di mettere nelle nostre scelte, seppur inserite in giochi dalle logiche matematiche latenti o manifeste. Ognuno di noi, giocando, pensa di muoversi in modo “originale” all’interno del mondo del gioco (e forse è proprio così!), ma non possiamo ignorare che in realtà tutte le nostre mosse siano solamente scelte all’interno di un labirinto matematico che di tanto in tanto mostra un’uscita. Da un certo punto di vista mi ritengo fortunato a non capirci di numeri, altrimenti mi perderei in ragionamenti senza né capo né coda, e farei di tutto per capire cosa spinga le nostre menti imperfette a misurarsi con una scienza così perfetta. Eppure, scomodando un minimo la filosofia, se davvero accettiamo che i giochi possano avere una struttura matematica, e quindi un’anima perfetta, siamo anche tentati di pensare che, in fondo, anche noi non siamo poi così imperfetti, se riusciamo a domarla.
Ed è proprio da qui che dobbiamo passare (o per certi versi partire) per arrivare a dare una definizione soddisfacente di “gioco”. Giampaolo Dossena, uno dei più grandi esperti nostrani di giochi, scomparso nel 2009, ha prodotto un’opera sterminata sull’argomento. Il suo studio si è focalizzato sostanzialmente sul capire il gioco “applicato”, ripercorrendo più volte la storia stessa del gioco (che lui, più che “storia” preferisce definirla “archeologia” di gioco). Tentare di sintetizzare tutta la sua opera sarebbe impossibile, e all’apparenza i suoi studi non sarebbero neanche troppo vicini ai nostri se pensiamo che egli parla dell’effetto che i giochi e i giocattoli hanno sullo sviluppo del bambino. In realtà dobbiamo ricrederci nel momento in cui egli afferma che sono gli adulti a trattare come cimeli i propri giochi, e non per un solo fatto di collezionismo, ma anche perché l’adulto si rende conto che è stato anche grazie al gioco se egli è diventato ciò che è diventato. Eppure Dossena, nei suoi studi, si rende perfettamente conto che la vita del giocatore, nella società, è piuttosto frustrante: i giocatori, scriveva Dossena, sono “accusati di trascurare i propri doveri e delapidare le proprie sostanze. Sarà interessante notare che il gioco non è uniformemente praticato in tutto il mondo. In alcune culture non è praticato affatto. Gli aborigeni australiani, tradizionalmente indifferenti all’accumulazione di ricchezze, non giocano; ma non giocano nemmeno i Malanesiani di Papua, che passano gran parte del proprio tempo ad accumulare proprietà. Tuttavia, dove il gioco è pratica comune, fa capolino la repressione. Questo può essere dovuto a disapprovazione sociale, come in epoca vittoriana, quando le scacchiere si presentavano come libri rilegati, per giocar di nascosto” (Il Libro dei Giochi da Tavolo, p.16).
Insomma, il giocatore è visto come un latitante, come un soggetto in fuga. Nonostante sia in grado, durante il gioco, di creare mondi nuovi, di essere davvero simile ad un Dio, il giocatore è sempre in fuga. Ce lo spiega con altre parole Stuart Brown, nel suo libro “Gioca! Come il gioco può fermare la mente, aprire l’immaginazione e costruire la realtà”. Egli scrive: “durante il gioco possiamo immaginare e sperimentare situazioni in cui non ci saremmo mai imbattuti, e imparare da queste. Possiamo creare possibilità mai esistite, ma che potrebbero verificarsi in futuro. Creiamo nuove connessioni cognitive che ritroveremo nelle nostre vite quotidiane. Impariamo lezioni e abilità senza essere direttamente a rischio […] Anche le nostre immaginazioni adulte sono continuamente attive, presagiscono il futuro ed esaminano le conseguenze del nostro comportamento prima di agire. Proprio come per i bambini, il flusso di coscienza degli adulti viene arricchito attraverso le simulazioni di giochi fantasiosi. Tutti noi fantastichiamo su eventi del nostro futuro, anche se non ne siamo del tutto consapevoli” (p.36-37).
Si delinea ancora di più, anche grazie al contributo di Brown, il ruolo che ha (e che ha avuto) il gioco nella nostra società: li dove ce n’è stato bisogno si è espanso (anche contro le leggi!), li dove non era necessario è rimasto invece semplicemente sopito. Ma qualsiasi rappresentazione ha potuto avere, il gioco ha dato le chiavi dell’infinito agli esseri umani, ci ha indicato – come direbbe il Morpheus di Matrix – la porta. Saremmo stati poi noi a scegliere se aprirla oppure no. Saremmo stati poi noi a scegliere se provare a toccare il “divino” oppure no. E sarà proprio da qui, dal divino, dall’infinito, che ripartiremo per il nostro ultimo appuntamento sul gioco. Un appuntamento che vedrà, finalmente, una proposta universale di definizione di gioco.
Continua…
Matteo Roberti