RomaFF12: “The Place” e la spirale della ripetizione

A distanza di un anno dal suo ultimo film, il regista di Perfetti sconosciuti si cimenta ancora una volta in un film corale, anche se, rispetto al suo predecessore, The Place presenta un cast ancor più ampio. L’ultima pellicola di Paolo Genovese risulta stilisticamente legata al pluripremiato film di cui sopra, non solo dalle presenze nel cast di Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Alba Rohrwacher, a cui ora si sono aggiunti Rocco Papaleo, Silvio Muccino, Sabrina Ferilli, Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni, Silvia D’Amico, Alessandro Borghi e Giulia Lazzarini. Anche The Place, ancor più di Perfetti sconosciuti, ha una sua location privilegiata, in questo caso proprio esclusiva. Alla casa e alla tavola di Perfetti sconosciuti ora Genovese sceglie un bar romano (in un incrocio di via Gallia) come luogo della sua realtà filmica.

Tutto il film è girato in quest’unica location, ripresa quasi sempre dall’interno e qualche volta dall’esterno per mostrare la scritta luminosa che sta a indicare il nome del bar: “the place”. L’insegna luminosa riporta subito alla mente dello spettatore attento l’estetica di un certo cinema d’autore internazionale: David Lynch su tutti, si pensi ad esempio all’entrata del “club silencio” di Mulholland Drive (2001) o a Twin Peaks, ma anche al refeniano club di boxe di Solo Dio perdona, o ancora al night di Lost River (Ryan Gosling). In generale questo tipo di estetica al neon è diventata una vera e propria cifra stilistica, che diversi autori contemporanei sfruttano sempre più per caratterizzare i loro temi. A partire dalle insegne dei locali, entrando poi in quei luoghi notturni, oscuri, disturbanti, onirici, scavalcando infine la pura estetica per mostrare ciò che c’è sotto, o meglio dentro, così questi luoghi con le loro insegne, per estensione, ci dicono qualcosa anche sul loro interno, parlandoci dei personaggi che li abitano o che li frequentano e dei loro incubi, fantasmi, desideri ed ossessioni.

Un po’ come quei locali oscuri del cinema americano, i personaggi dell’ultimo film di Paolo Genovese sono anime disperate, disposte a spingersi oltre il confine di una morale accettabile per veder realizzati i loro desideri, tutti diversi, alcuni esigui altri affatto, ma ognuno di loro sembra non poterne fare a meno, forse anche a qualsiasi costo.

Oltre alla chiara citazione estetica, The Place di interessante ha solo il soggetto e la struttura narrativa, peccato che sia un adattamento della serie televisiva statunitense The Booth at the End. Paolo Genovese firma un film ambizioso, troppo, e inciampa proprio in quella semplicità estetica che in Perfetti sconosciuti è risultata invece vincente nonché sensibile. La regia di The Place, invece, risulta fin troppo sobria, un campo/controcampo dopo l’altro a cui si alternano i totali dell’esterno del bar. È un film corale e dalla forte impronta teatrale, fondato sui dialoghi e su una non sempre buona interpretazione attoriale, la cui narrazione comincia ad ingranare e incuriosire solo dopo una prima parte lenta che, per via della ciclica reiterazione dello stesso schema per ogni personaggio, annoia lo spettatore. A ciò si aggiunge la fissità trasmessa dalla scelta della location unica che di certo non aiuta. Un meccanismo pulsionale che non trova mai sfogo. È chiara l’intenzione di Paolo Genovese di rappresentare un percorso ripetitivo e autodistruttivo, ma nel farlo inciampa nella sua stessa trappola, facendo entrare il film stesso, musiche comprese, in una spirale patetica di noia e ripetizione.

Voto: 5

Dal 9 novembre al cinema.