In occasione della giornata internazionale della donna, la direttrice del Centro di Salute Mentale ASL Roma 2, Giusy Gabriele, è intervenuta nel corso dell’evento La rete nella Rete – la manipolazione affettiva nell’era dei social, organizzato dal Comitato Unico di Garanzia dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”.
Tale evento ha preso spunto dal libro della criminologa Roberta Bruzzone dal titolo Io non ci sto più, che tratta l’attuale e delicato tema della manipolazione affettiva nell’era dei social network. Si riporta di seguito l’intervento di Giusy Gabriele.
La parola “rete”, a partire dalla sua etimologia, ci offre diverse possibilità di significazione, come evocato dal titolo dell’evento. La rete nella rete suggerisce il pericolo di un’insidia, infatti alcuni connettono l’origine della parola a rètinere (ritenere), intesa come trappola per catturare.
Dirigendo un servizio psichiatrico, che si confronta quotidianamente con la sofferenza e le angosce delle persone preferisco riferirmi più volentieri alla parola sèrere (tessere), che è esattamente quello di cui c’è bisogno per affrontare la complessità delle situazioni psichiatriche: costruire un sistema di relazioni.
È necessario riflettere sulla qualità delle relazioni umane in questo contesto sociale, economico e culturale; relazioni che sembrano essere sempre più condizionate dalla presenza della tecnologia. Ritengo che la tecnologia di per sé potrebbe essere uno strumento neutro, fa la differenza l’utilizzo che ne facciamo a seconda del contesto di riferimento e delle direzioni indotte da chi stabilisce le regole.
Le nuove dinamiche sociali e le loro conseguenze
Scriveva Erich Fromm: “L’amore non è soltanto una relazione con una particolare persona: è un’attitudine, un orientamento di carattere che determina i rapporti di una persona col mondo”.
In questa fase storica, anche i legami affettivi sono diventati “liquidi” (Bauman), cioè deboli e continuamente mutevoli, assistiamo ad una mercificazione dei corpi che sono “vetrinizzati” come suggerisce Codeluppi.
Dal mio osservatorio particolare e privilegiato delle dinamiche sociali (Basaglia), noto come oggi prevalgano, invece, spinte ad esercitare potere e possesso dell’altro “oggettivato”. Ad esempio, come elaborare che, mentre in rete e nei mass-media c’è un proliferare di donne giovani, seducenti, tentatrici, disponibili e sorridenti, nella quotidianità di casa nostra, c’è una donna che parla, protesta, lavora, è stanca e si lamenta? Alcuni vorrebbero cancellarla con un click, cercarne un’altra in rete o nel peggiore dei casi farla sparire fisicamente.
Si è prodotta una situazione sociale e culturale che favorisce e approva competizione, concorrenza estrema, sopraffazione, talk show, in cui è più bravo e vincente chi urla e interrompe, incitamento all’odio razziale sui social, crisi del sistema educativo ecc.
Il risultato di tutto questo è indubbiamente molto stressante, ci isola, ci sottopone a frustrazioni continue, favorisce una tendenza a paranoicizzare i rapporti reali e a fuggire nel nostro “avatar”.
Siamo davanti a una perdita di valore dell’empatia e forse addirittura a un’impossibilità di svilupparla. I social network favoriscono, in modo pericoloso, la percezione di essere visti e di vedere gli altri. L’empatia, che è alla base di una relazione significativa e reale, ha bisogno del corpo, serve esserci con tutti i sensi allertati, comunicare oltre la parola; McLuhan ci ricorda che ogni nuova tecnologia diminuisce l’intreccio tra i sensi e la consapevolezza.
Cancellare “l’Altro da sé” con un click è una consuetudine pericolosa, ma che nella sua facile diffusione di massa ci porta a minimizzare l’impegno e la responsabilità nella e della relazione umana, rischiando di fare del male inconsapevolmente, come segnalava Hannah Arendt. In quel click c’è la possibilità di annullare definitivamente l’Altro e il suo pensiero se diverso dal nostro mondo. Così restringiamo il campo della nostra visuale solo a coloro che sono come noi, coloro che confermano le nostre convinzioni e ci rassicurano.
Infondo, nel piccolo esercitiamo un potere di scotomizzazione, perché è questo che nella nostra epoca sembra essere il grande seduttore. Quel potere che, secondo Tagore, “considera ingratitudine il dimenarsi delle sue vittime”. Non vogliamo essere messi in crisi dalla differenza e non tolleriamo il dubbio che ne deriverebbe, pertanto tendiamo a negarla.
D’altra parte abbiamo assistito, in politica, al dileggio sprezzante per gli oppositori esibito dai diversi schieramenti. L’osservazione, a partire dalle mie lenti di psicologa, mi fa rilevare una grande presenza di forme narcisistiche che necessariamente vedono la solidarietà come stupido buonismo e che non provano affetto per i beni comuni. Tutto ciò, rafforzando isolamento e individualismo, si riverbera nella disgregazione dei legami significativi nella comunità e nella famiglia. Se a fronte della solitudine di un corpo ripiegato su sé stesso, privato di significative interazioni umane (intendendo con questo anche la pratica dell’abbraccio) le persone si lasciano travolgere da un palcoscenico dove la vita digitale diventa quella dominante, il senso della realtà può essere stravolto generando confusione emotiva e intellettiva.
I “nativi digitali” e il vuoto di desiderio nei giovani
A volte, quando gli adulti parlano di “nativi digitali” sembrano anche soffrirne un po’, dimentichi del fatto che non si tratta di competenze acquisite, ma di uno stato in cui i ragazzi si sono trovati nel nascere. Imparare presto a usare la tecnologia non significa facilitare il processo di sviluppo della personalità. Anzi, dobbiamo riflettere su come il progressivo abbandono dell’esperienza sensoriale e affettiva della relazione umana possa incidere sulle pratiche quotidiane, sul dialogo, sul confronto, sulla capacità di definire i confini, il nostro spazio e quello dell’Altro.
Osserviamo tutti i giorni nei servizi di salute mentale il vuoto di desiderio nei giovani, probabilmente per quello che Recalcati ci ha segnalato come la “morte del padre”. Questo fenomeno è così evidente da aver portato alla formulazione di nuove diagnosi etichettanti che, senza un serio approfondimento, inducono solo alla somministrazione di farmaci senza comprendere il senso profondo di questo modo di “essere nel mondo”. Neanche il sistema educativo riesce ad essere di aiuto, perché in crisi, e si trova a dover mettere un limite dove la famiglia non è stata in grado di farlo: il desiderio nasce quando si mette limite all’impulso.
Dall’odiatore seriale al leone da tastiera: l’identikit dell’utente 2.0
L’Espresso ha recentemente indagato sull’odiatore seriale: uomini e donne, assolutamente normali, che, insieme a torte e gattini che fanno le fusa, pubblicano in rete frasi violentissime contro altri esseri umani, prevalentemente immigrati. Queste affermazioni ottengono migliaia di followers perché non sono il frutto di un’elaborazione del pensiero, ma di puro impulso.
Calvino era, giustamente, preoccupato di come i regimi usino la miseria dell’uomo contro l’uomo, mentre Sciascia temeva un’alleanza tra imbecilli e furbi; Jaspers nel suo liberalismo esistenziale diceva: “L’uomo non è un santo e neanche condannato al peccato, bensì come esistenza possibile nell’esserci”.
Varrebbe la pena, quindi, di approfondire sulla base anche di un’analisi delle condizioni materiali delle vite di tutte e tutti, analizzare quale sia lo spazio di esistenza possibile che abbiamo, o meglio, che ci viene concesso oggi. Non è semplificando e prendendo le distanze dalle miserie di coloro che vengono semplicisticamente definiti “leoni da tastiera” che possiamo sentirci assolti, non sono “mostri di ignoranza” che a nostra volta possiamo cancellare con un click.
Banalmente è la gente, o comunque una larga parte di essa, che di fatto condiziona la nostra vita con le sue scelte. Viene in mente, ancora una volta, La banalità del male.
Secondo Arendt, Eichmann si era reso responsabile, commettendo crimini contro gli ebrei, di attentare all’umanità stessa e al diritto di chiunque di esistere e di essere diverso dall’Altro.
Uccidendo più razze si negava la possibilità di esistere all’umanità, che è tale solo perché miscuglio di diversità. Eichmann era un uomo normale, sconcertante proprio per questo, perfino la sua adesione al nazismo era stata quasi casuale.
Arendt non critica solo il totalitarismo, si occupa della genesi del male, dell’inconsapevolezza: essere braccio inconsapevole di altri è estremamente comune e banale e il potere può utilizzare questa attitudine in tantissimi modi, a seconda delle fasi e delle esigenze.
Dobbiamo chiederci se è vero quello che ci propone Maurizio Ferraris: “I circuiti social hanno dato identità al popolo delle fake news, proprio come le fabbriche avevano dato identità alla classe operaia” un pensiero suggestivo e spaventoso che andrebbe approfondito.
D’altra parte è vero che “l’ideologia che anima la post-verità è l’atomismo di milioni di persone convinte di avere ragione, non insieme, come nei partiti e nelle chiese, ma da sole”.
Codeluppi, nel suo La vetrinizzazione sociale, ci avverte: “Numerose conquiste tecnologiche che rendono la vita più confortevole hanno la vulnerabilità come effetto collaterale”.
L’abolizione della barriera tra pubblico e privato crea inevitabilmente negli individui la sensazione di essere più esposti e dunque anche più indifesi.
L’insicurezza è, dunque, una delle conseguenze della “iper-comunicazione”. È un dato accertato che, più cresce l’insicurezza e più siamo disposti a rinunciare alle libertà nostre ed altrui, e, quindi, ad accettare forme di controllo sociale e di esclusione di fasce di popolazione ritenute fonte di pericolosità. Ne hanno pagato il prezzo nel tempo, ad esempio, i matti, gli stranieri, i rom e gli ebrei.
Tornando a Codeluppi, l’indebolirsi dei rassicuranti legami comunitari e di quelli con lo Stato, ma anche la crescente flessibilità imposta dalla concorrenza sui mercati via via più globali, lasciano l’individuo completamente esposto. Crescono le preoccupazioni relative alla sicurezza sociale, anche se, in realtà, secondo Castel [e alla prova delle statistiche, ndr] viviamo nelle città più sicure mai esistite. Come diceva Kant: “Che il mondo si trovi in una situazione di male è un lamento vecchio quanto la storia”.
Ma dov’è il pericolo reale?
Mi sembra di poter dire che l’altro determinante importante è la paura irrazionale e fantasmatica, che non trova spazi di elaborazione e non sa comprendere se e dove si annidi il pericolo.
Il problema non è la sicurezza reale, ma la percezione della stessa. Infatti, per un gran numero di donne il pericolo si annida dentro la stretta cerchia delle persone molto conosciute, ma questa verità statistica è così dolorosa per la psiche che si preferisce rimuoverla. Così come è difficile stare in contatto con l’idea che i disastri ambientali e le catastrofi dovute alla fragilità di un territorio trascurato facciano più morti del terrorismo islamico. La rete e i mass media confermano le nostre convinzioni amplificando alcune informazioni e cancellandone velocemente altre.
Ritengo che la cultura e l’università abbiano un ruolo fondamentale nel decodificare ciò che sta accadendo, dovrebbero farsi promotori di conoscenza e sensificazione, atte a produrre consapevolezza e pensiero, unici rimedi in grado di contrastare la dominante banalità del male. La conoscenza può salvare il mondo.
Per ciascuno di noi vale poi quello che diceva Jaspers: “L’assunzione da parte del singolo dell’impegno a fare chiarezza nella e sulla situazione spirituale della propria epoca equivale ad una implicita presa in carico della volontà di essere uomo”.