Viaggi della mente

Viaggi della mente è il titolo di questo numero estivo di 180gradi. Ed è anche il tema dentro cui noi che ci scriviamo dobbiamo mantenerci, la commissione a cui dobbiamo attenerci. E’ un tema vago e vasto, che lascia a chi scrive delle possibilità di scelta molto ampie. Si può scrivere della malattia mentale, sulla lettura di un libro inteso come evasione dalla routine, sull’esperienza di una droga psichedelica e via dicendo. Dal coacervo di possibilità astratte bisogna però intraprendere uno solo dei cammini che dall’espressione si dipartono. Io ho optato per una breve incursione sul terreno dell’immaginario astratto, di cui sempre mi ha colpito l’influenza sulla nostra esperienza concreta e quotidiana.

Un buon esempio mi pare sia il rapporto tra il bagaglio di idee con cui partiamo verso luoghi sconosciuti e i luoghi stessi.

Penso per esempio a un viaggio in un paese straniero, all’esperienza dell’emigrazione, o anche a una settimana in una regione italiana che ancora non abbiamo visitato, e che magari è solo 300 km a Nord rispetto a casa nostra. Tra l’altro siamo in estate, e molti di noi viaggiano, vanno a vedere posti sconosciuti. Arriviamo molto raramente con uno sguardo del tutto vergine, scevro da stereotipi o idee vaghe derivanti dai racconti degliamici, dalle immagini della televisione, dalle cartoline appese ai muri degli uffici. Prima di partire in macchina,in aereo o in treno, tutti noi facciamo degli involontari viaggi mentali che tornano d’attualità durante il viaggio vero, quello fisico.

Questo tipo di viaggio mentale parte spesso da dettagli molto concreti, da suoni o immagini o sensazioni che casualmente ci catturano per degli istanti della nostra vita. Nella realtà concreta in cui ci muoviamo, nell’ufficio in cui ogni mattina ci rechiamo o al ristorante in cui mangiamo, ci sono degli oggetti che colorano e marcano il nostro quotidiano: come una sedia in cuoio nero, piena di pieghe scolorite, con un bottone incavato a metà dello schienale; o come il sugo rosso, oleoso e succulento intriso nella pasta a mezz’aria che intercettiamo prima che la forchetta sparisca tra le nostre fauci.

Questi dettagli così precisi sono spesso legati ad altri luoghi, e però appartengono alla nostra normalità.

Per esempio durante un’uscita serale ci può capitare di intercettare ancora una volta un accento regionale non del posto, durante l’ora di geografia alle scuole medie ci capiterà probabilmente di imparare diligentemente la conformazione geografica del Marocco, l’attività economica principale, il clima, il nome di una minoranza come i berberi: e questi nomi, queste entità senza contenuto, fatte di soli gusci, ce le portiamo dietro per tutta la vita, fino a quando in Marocco ci andiamo veramente.

viaggi

Per formare questi immaginari stereotipati peschiamo un po’ dappertutto: cartoline per turisti, discorsi degli amici, film con personaggi argentini e danzanti, ore e ore di lezione ascoltate distrattamente, oppure le letture passate.

Questi stereotipi collettivi e però pure personali modellano il nostro approccio verso i luoghi che ci ritroviamo a visitare per la prima volta, per esempio in un’estate come questa. Sono lì dentro di noi, e ci chiedono di verificare la loro veridicità o di smentirli platealmente per per giungere a un livello più profondo di conoscenza. Ad esempio andiamo negli Stati Uniti per la prima volta e ci stupiamo della corrispondenza tra i vasti campi con case a staccionate bianche che c’erano nei telefilm e quei paesaggi che concretamente ci ritroviamo davanti, fuori dal finestrino dell’auto che la nostra ragazza sta guidando. Ora, quello che ci piace e stupisce è che quel posto sia veramente in quel modo, come nell’immaginario che pure ci pareva troppo trito e commerciale. Il vedere che lo stereotipo un po’ stupido che ci portiamo dietro esiste mi ha sempre provocato uno stupore entusiasta e infantile.

Altre volte invece ci concentriamo su quei dettagli che dalla superficiale immagine collettiva si distanziano, perché vogliamo accedere al posto per com’è veramente. Non chiediamo più ai luoghi di corrispondere alla nostre immagini superficiali, ma al contrario di distanziarsene radicalmente, di mostrarci ciò che c’è sotto la crosta superciale, al di là dell’immagine semplificata che si vende ai più di cui non vogliamo far parte.

Altre volte ancora, e forse è l’esperienza più interessante, chiediamo entrambe le cose: di mostrarci la stazione di servizio con gli hamburger e i cappelli da cowboy contemporanei e però anche la routine di persone che tutto sono meno che il prodotto tipico ricercato dal turista x. Nel secondo caso, avremo infatti la felice sensazione di vivere un’esperienza reale, di accedere a un universo locale a cui gli altri turisti restano del tutto esterni. Quindi il nostro immaginario di partenza influenzerà abbondantemente il nostro viaggio in Albania, in Israele o in Puglia, funzionando come una griglia selettiva che dà risalto ad alcuni aspetti tacendone degli altri.

Mi viene da pensare a un’esperienza molto diversa dal turismo e che da sempre caratterizza l’Italia: l’emigrazione.

Qualche anno fa andai in Argentina per una ricerca universitaria. Dovevo intervistare degli emigrati siciliani ormai ottantenni che erano arrivati a Buenos Aires molto giovani e in cerca di fortuna. Nell’elaborato che a fatica dovevo portare a termine una parte era dedicata alla valutazione dell’esperienza migratoria. Qual era il bilancio che traevano dalla loro esperienza? Erano contenti? Vivevano rintanati nella nostalgia? Chiaramente nei loro discorsi convivevano delle contraddizioni, ed erano sia contenti che scontenti.

Ma ciò che mi colpì nei loro discorsi fu la persistenza, nonostante gli anni trascorsi, dell’immaginario con cui erano partiti e alla luce del quale consideravano la loro vita riuscita o o un po’ fallita. Il carico di promesse e abbondanza dell’emigrante era lì a chiedere il suo conto.

Nino, un signore della provincia di Messina, mi disse: Claudio, noi siamo partiti per farci l’America: e abbiamo sbagliato America, accidenti. Erano tutti un po’ ironici e disincantati, perché si vedevano come i cugini poveri di quegli emigrati andati negli Stati Uniti o in Australia. Per quanto sia banale, il punto è che questo atteggiamento derivava dalla persistenza della vaghissima immagine con cui erano partiti, e che ancora oggi ne faceva dei personaggi più tristi degli spensierati vicini autoctoni. Una signora in là con gli anni, che in mia presenza ci teneva a rispolverare il suo vecchio dialetto che alternava allo spagnolo, mi diceva della delusione iniziale di fronte alle strade sterrate: nel mio paesino almeno le strade c’erano, qua solo fango! La strada sterrata di sessant’anni fa la colpiva e deludeva perché nei suoi disegni mentali c’erano lunghe strade asfaltate, campi rigogliosi e tasche piene zeppe di banconote: e la periferia di Buenos Aires, non era proprio così, ma con quell’immaginario doveva confrontarsi. Tanto che poi tutti quegli emigrati italiani hanno provato più o meno maldestramente a modellare la realtà per farla somigliare di più all’immagine un po’ naïve con cui erano arrivati.

Forse è questo l’aspetto più sorprendente dell’immaginario: che modella la realtà, che ci fa vedere alcune cose e non altre, e che se non trova ciò che vuole arriva a farselo da solo, fino a essere almeno in parte soddisfatto.

 

CLAUDIO PATERNITI

 

1) Illustrazione di Masha Krasnova | Flickr | CCLicense

2) Illustrazione di kasiQ kmjw | Flickr | CCLicense

 

Leggi il n. 4

6283331992_7f8873bb60_o