Se in un giorno di follia

A Roma siamo in piena campagna elettorale e gli operatori e tutti quelli che sono attivi nell’ambiente del CSM di Tormarancia operano per avere una voce diretta verso il futuro sindaco di Roma e la prossima giunta politica.

In sostanza si chiede, ai prossimi politici di turno, di migliorare e potenziare i servizi già esistenti e di sviluppare nuove forme d’aiuto per i pazienti psichiatrici. Uno dei punti fondamentali delle richieste di psicologi, pazienti e psichiatri è lo sviluppo di nuove strategie per l’evitazione di ricoveri in SPDC, la cosiddetta chiamata di TSO, che spesso abbiamo potuto sentire in occasione dei tragici casi di psichiatria coattiva, balzati alle cronache di telegiornali e stampa. Il senso del ricovero in SPDC è tutto racchiuso in una domanda “in un giorno di follia cosa mi accadrebbe?”. Già perché è proprio questa la domanda che ci porremmo tutti se ci domandassimo cosa potrebbe accaderci se un giorno ci trovassimo a fare i conti col disagio psichico, il quale potrebbe essere nostro o di un amico, fratello o parente che si potrebbe trovare in una congiuntura di crisi psichica non gestibile con una semplice camomilla o una pillola di valeriana.

Chiamare il 118, per colui che si trova a dover affrontare un problema psichico grave riguardante un proprio caro è sempre molto difficile e angosciante. Ed anche per colui a causa del quale viene chiamato l’intervento coattivo non è di certo una passeggiata subire contenzione (ove ve ne sia il caso) e l’internamento nel reparto di psichiatria. Entrare in SPDC ed essere internato in una struttura dove per necessità contenitive vi è una porta blindata e finestre a prova di fuga, calpesterebbe il valore del libero arbitrio di qualsiasi persona. Spesso la pratica del TSO è sinonimo di malasanità, con infermieri e medici che spesso abusano della forza per contenere una persona in crisi. Perdere il libero arbitrio perché gli altri non pongono considerazione fiduciosa verso la propria mente, verso il proprio lume, raziocinio e soprattutto verso la propria lucidità è il nocciolo da cui nasce una pianta velenosa: il nocciolo del pregiudizio verso se stessi e del pregiudizio da parte degli altri. Da qui emerge una riflessione protesa all’alleviamento, perlomeno, dell’uso di questa pratica. Se in un giorno di follia potessimo trovare operatori esperti (psicologi) invece che polizia municipale medico e infermiere, magari avremmo più possibilità di evitarci un ricovero in SPDC, rischioso per la piega violenta e coercitiva che potrebbe prendere, nel caso in cui non volessimo, in piena crisi, andare coi propri piedi nell’ambulanza. Provare un dialogo che sa di sfida, “di vera follia”, da intraprendere con il paziente per un’intera giornata, anch’essa di “di vera follia”, in cui gli operatori (che siano tutti rigorosamente psicologi) diano un’ultima chance alla persona in crisi, la quale vivrebbe un momento di rabbia, frustrazione e angoscia (com’è solito) ancor più acuite dal trasferimento coercitivo in SPDC. Un invito alla cura attraverso il dialogo e il ragionamento reciproco, nel tentativo di placare la rabbia, capire le fonti dell’angoscia e di intrattenere una relazione di netta onestà e sincerità col paziente.

Foto: Dan Thibodeaux | Flickr | CCLicense