È dall’indomani della sua approvazione che si susseguono progetti di riforma della riforma psichiatrica italiana. Le proposte sono tante che per descriverne contenuti e filosofie non basterebbe un breve articolo: ad animarle sempre uno spirito critico, o nei confronti dei princìpi della 180 o della sua incompleta applicazione. Tra le più recenti quella presentata nel marzo del 2014 nota come 181 che vede come primo firmatario il deputato PD Casati, diventata poi ddl 2233. A sostenerla un fronte che vede in prima fila il movimento Le Parole Ritrovate, nato a Trento ma con una vasta ramificazione nazionale, e una galassia di altre associazioni di familiari ed utenti nonché di operatori della Salute Mentale.
Le premesse della 2233 partono da una condivisibile insoddisfazione per dove vada la psichiatria italiana ormai da troppi anni: una incompiuta e sempre più precaria territorializzazione resa ancor più fragile dallo spopolamento ed invecchiamento del personale; la conseguente dissoluzione di alcuni capisaldi del lavoro psichiatrico come la continuità e la coerenza delle cure; una burocratizzazione dei trattamenti con l’inevitabile arroccamento in risposte difensive ed evitanti che allontanano utenti e familiari dai luoghi della psichiatria pubblica e impediscono la costruzione di relazioni efficaci e la tempestività degli interventi; il ritorno in grande stile di un modello medicale ed ospedaliero in cui farmaci, contenzioni fisiche e silenziamento sintomatologico sono le soluzioni prevalenti alle situazioni di crisi o alla cronicità. Non si esauriscono qui le ragioni di una diffusa fragilità del sistema psichiatrico pubblico territoriale così come si è venuto a configurare nei primi tre decenni della 180, ma i temi segnalati sarebbero già sufficienti ad un profondo rimaneggiamento delle modalità con cui ciascuna Regione, ciascuna ASL e ciascun Dipartimento di Salute Mentale ne ha applicato, non applicato, sempre più spesso disatteso, lo spirito e la sostanza.
Ma cosa propone di nuovo la 2233? E quello che propone è davvero nuovo?
Alla metà degli anni ’80 le associazioni dei familiari negli Stati Uniti diventarono i più critici accusatori della psichiatria, in particolare quella ispirata alla cultura e alla pratica psicoterapica, allora ancora egemone, che vedevano i disturbi psichiatrici, primo fra tutti la schizofrenia, come legati in prevalenza alle condizioni ambientali, ai contesti della crescita, al clima familiare e alla trasmissione di condizioni di sofferenza tra le varie generazioni. Lo slogan delle associazioni era “non siamo colpevoli”: la malattia ha origini solo biologiche per cui i genitori non hanno nulla a che fare con la sua insorgenza anche se, aiutati, reclutati come ‘operatori domestici’ possono fare qualcosa per non farla peggiorare e per accudire i propri figli sofferenti. La loro forza e l’impatto lobbystico sulla politica che ne derivò proveniva anche dall’alleanza con la psichiatria organicista, sempre presente sulla scena sempre più balcanizzata delle psichiatrie, con i produttori di farmaci a cui essa era molto prossima: il risultato fu uno spostamento drastico dell’asse della ricerca e dei suoi fondi dal relazionale al biologico, il cambiamento di orientamento delle più importanti istituzioni scientifiche, a partire dall’NIMH (il settore dedicato alla salute mentale dell’Istituto Nazionale per la Salute degli S.U.) verso le neuroscienze e le sue auspicate applicazioni in campo clinico. Per quanto sintetica e grossolana questa ricostruzione possa apparire, è questo lo sfondo su cui si diffusero il modello psicoeducativo da una parte e quello naturalistico-farmacologico dall’altro.
Cosa pensare allora se, nel 2016, leggiamo nella proposta di legge che “un figlio, un fratello, un nipote che fino al giorno prima camminava sereno al nostro fianco è diventato un altro” e che la malattia mentale grave è “un 11 settembre”? Ancora una volta il confronto è con l’imponderabile, con l’ignoto che fa irruzione nella normalità e l’accento non è sulla capacità di intercettare per tempo la sofferenza ma sul “fare assieme”. Insieme dovrebbero essere i pazienti, i familiari e gli operatori della salute mentale a combattere contro il comune nemico, una malattia che “parla ed agisce” al posto della persona che ne è affetta e contro la quale va creata “la squadra del patto di cura”. Familiari e utenti esperti, gli UFE, la cui esperienza va professionalizzata, remunerata per integrare la carenza di risorse umane della sanità. Non potenziamento dei servizi psichiatrici con personale adeguato per numero e formazione, non rispetto dei criteri del Piano Nazionale e di quelli Regionali per la Salute Mentale radicalmente disattesi, non difesa dei diritti, non politiche di reale inclusione ma reclutamento di forze nuove tra coloro che della malattia mentale sono protagonisti forzati trasformati in attori alla pari degli altri operatori. E nemmeno accento sulla dimensione territoriale delle cure, sul loro rapporto con il sociale che da una medicina tecnocratica e fintamente aziendalizzata è schiacciata sulla fornitura di servizi minimi ed economici: l’esperienza italiana ha insegnato che le persone affette da disturbi psichiatrici gravi non necessitano solo di buoni farmaci ma di cura delle relazioni, a partire da quelle familiari, di difesa dei loro diritti ad essere soggetti, cittadini i cui bisogni non vanno delegati alla filantropia o alla carità. La riforma auspicata dai suoi promulgatori ambisce ad intervenire positivamente sulla fiducia dei cittadini nei confronti degli operatori della salute mentale, a garantire l’accoglienza e la capacità di confronto con l’inquietudine e il dolore della follia attraverso un atto legislativo, persino ad aver a cuore, per la stessa via, i luoghi fisici delle cure. Niente è detto del depauperamento materiale e culturale di quei luoghi e delle persone che vi lavorano; niente neppure delle nuove manicomialità, sia quelle dei servizi pubblici, sia quelle del privato accreditato e dei suoi esorbitanti posti letto che assorbono, fino spesso a consumarle, le risorse che sarebbero più efficacemente destinate a un servizio pubblico su cui investire; e ancora nulla viene riservato alla deriva securitaria di cui le REMS sono espressione sfacciata, luoghi in cui i pazienti possono accedere in virtù dei reati che dovessero compiere, saltando, attraverso le decisioni della magistratura, il passaggio per la presa in carico clinica.
La proposta di legge 2233 appare pertanto una combinazione di buon senso, proposte velleitarie e pericolose derive deresponsabilizzanti. Diluita in un idealistico e consolatorio comunitarismo la dimensione del conflitto (quello tra poteri pubblici e privati, quello tra familiari, tra utenti e servizi), l’azione trasformativa e terapeutica si riduce a un rassicurante “patto di cura concordato”. L’inclusione di utenti e familiari nei processi e nell’organizzazione dei servizi assume tutti insieme, banalizzandoli con inquietante superficialità, i concetti di empowerment e di alleanza terapeutica, il rispetto per la soggettività lesa da rapporti di potere sbilanciati verso l’imposizione di soluzioni di stampo medico, le rivendicazioni antipsichiatriche di alcune associazioni di utenti, il confronto a volte aspro ma vitale con i familiari e, talora, con le loro associazioni anche a livello istituzionale, le battaglie per i diritti al lavoro e all’abitare, le carenze culturali e materiali della sanità pubblica e tante altre tematiche che si fatica a vedere affrontate e risolte in 17 articoli di legge. Nei quali, peraltro, non sembra esservi spazio per il problematico perpetuarsi del circolo ricorsivo che confonde consapevolezza, colpevolizzazione e stigma.
Senza nulla togliere alle buone intenzioni dei proponenti, il rischio di questa ennesima proposta riformatrice non è di modificare una legge perfetta ma quello di lasciare inalterata nella sostanza la china degenerativa intrapresa dall’amministrazione della psichiatria pubblica nel nostro paese. Un aggiornamento di facciata che non andrebbe ad intaccare snodi di necessario confronto con la modernità come il rapporto tra pubblico e privato o la sfrenata aziendalizzazione che penalizza diversi decenni di pratiche emancipative relegandole nella genericità assistenziale e nella perpetuazione delle tante cronicità che caratterizzano il terreno relazionale su cui il disagio e la sofferenza si congelano in malattie incurabili.
Antonello d’Elia