Sono un’infermiera, non vanto una lunga esperienza, ma amo quello che faccio. Lavoro sul territorio, nello specifico nell’emergenza territoriale, su un’ambulanza, e ne sono orgogliosa.
Ho la possibilità di entrare nelle case delle persone e già questo mi permette di capire, di valutare e, nel mio piccolo, di entrare nel mondo di chi ha richiesto aiuto.
Il mio lavoro consiste nell’individuare il problema, la priorità per la sopravvivenza della persona e adottare misure necessarie affinché questa possa raggiungere il giusto ospedale, nel miglior modo possibile e nel minor tempo possibile. Nel mio lavoro dispongo di parametri e valutazioni cliniche, ma sono fondamentali anche i sensi. L’ascolto della persona interessata e dei familiari e il “colpo d’occhio” mi aiutano a riconoscere i bisogni di quel momento critico. Le mie valutazioni devono essere rapide, ma non superficiali, e contemporaneamente devo stabilire una relazione con la persona che ha bisogno del mio aiuto e con i familiari: badare ai modi, ai contenuti, al non detto.
In un attimo c’è il rischio di perdere la fiducia della persona che sto soccorrendo. Per me conta fare tutto il possibile, sia a livello fisico che psichico. Io mi occupo della problematica fisica ma do molta importanza anche al vissuto emotivo del paziente. Cerco di essere rassicurante, chiara e sincera nella risoluzione dei dubbi, se mi vengono comunicati, oppure essere semplicemente presente e disponibile per i più silenziosi.
Il mio è un lavoro molto adrenalinico, ogni giorno al mattino sono pronta a tutto: dodici ore in trincea. Mi chiedo cosa succederà nel corso della giornata e se sarò in grado di fare quello che devo. Presto molta attenzione anche a come mi sento, dato che alcuni giorni è più facile affrontare la vulnerabilità, la sofferenza e la malattia, altri meno; ma devo farlo lo stesso e al meglio, perché non vorrei mai che una persona già in difficoltà debba subire anche la mia “giornata no”.
Ogni giornata con tanti soccorsi lascia altrettante facce, odori e lacrime nella mia mente. La sera mi sento carica e affaticata dagli sguardi delle persone che ho incontrato. Carica delle loro speranze, fiduciosa perché riescano a cavarsela. Rifletto sempre sul modo in cui ho agito chiedendomi se ho fatto la cosa giusta e se ho fatto tutto il possibile.
E quando riesco a fare la differenza, quando qualcuno mi dice un “grazie” carico di sincerità, quando riesco a strappare sorrisi così difficili, quando riesco anche solo a spiegare un concetto banale ma, allo stesso tempo, così incomprensibile all’anziano in difficoltà, è allora che mi si riempie il cuore di gioia.
Un’altra componente di questo lavoro è che non so mai come va a finire, nel senso che non ho la possibilità di seguire il paziente durante il suo percorso di cura. I primi tempi, volevo sapere il percorso di tutti, le condizioni di tutti, perché ognuno è importante, nonostante il problema di salute più o meno grave e il mio intervento più o meno utile. Col tempo ho dovuto imparare che non è possibile, accettare questa componente del lavoro, anche per proteggermi.
Tuttavia a volte rincorro le notizie sulla salute di alcuni per darmi delle risposte, per avere delle conferme sul mio operato e perché c’è sempre quello sguardo, quella stret- ta di mano, quella storia che ti tocca maggiormente. Sono un elemento di passaggio nella catena delle cure e spero di esserlo con umiltà, empatia ed umanità.