A Trieste c’era un uomo che soffriva di influenza tutto l’inverno. Oltre al suo costante malessere, non avendo i soldi per pagarsi le medicine il suo trattamento pesava sulla spesa pubblica. Quando gli operatori di “Microarea” lo hanno raggiunto hanno scoperto che non aveva il riscaldamento in casa. E questo è bastato per cambiare le cose: un operatore che andasse casa per casa ad analizzare il bisogno di salute e i soldi per riparare una caldaia. Si è prevenuta la spesa sanitaria e la si è convertita in intervento sociale, mettendo in comune risorse e budget rivolti alla persona in una innovativa e più efficace forma di riconversione della spesa. Sembra una banalità, ma in realtà è una pratica rivoluzionaria, che supera la frammentazione e scarsa comunicazione tra i diversi servizi che porta a sperperare un sacco di soldi.
A spiegare cos’è il progetto Microarea sono Ofelia Altomare e Alfio Stefanic, due dei responsabili che svolgono questo progetto a Valmaura, uno dei quartieri di edilizia popolare più problematici di Trieste.
Il progetto nasce dall’esigenza di prendere in considerazione aree particolarmente in difficoltà della città, come le aree di periferia che hanno grossi problemi assistenziali, di emarginazione sociale, devianza e tossicodipendenza e in cui non c’è un servizio ad hoc che interviene sul territorio. C’è quindi la necessità di intervenire a livello istituzionale e, allo stesso tempo, di cercare di capire questi territori e la popolazione che li abita.
Il progetto si chiama Microarea perché si individuano delle aree precise, solitamente di edilizia popolare, di circa mille abitanti. Il progetto si realizza attraverso un accordo tra Asl, Comune ed Ente case popolari (l’ATER) in cui tutti e tre agiscono insieme. L’Ater si occupa dell’informazione rispetto ai problemi inerenti lo stabile, il Comune si occupa della parte sociale, come l’assistenza ai minori e la lotta al degrado sociale, mentre l’azienda si occupa dell’assistenza domiciliare post-ospedaliera che avviene sul territorio. Microarea agisce da promotore dei bisogni della gente e del territorio, in più stimola il miglioramento dei servizi nel caso in cui questi siano carenti. Il personale di Microarea è scelto dai tre enti: il distretto di appartenenza, il Comune, che delega il lavoro ad operatori di una cooperativa e infine l’Ater, che impiega una propria persona alle rilevazioni sulle abitazioni e sullo stato degli stabili. C’è una stessa sede e in organico ci sono almeno due ragazzi del servizio civile. Le prime due sedi di Microarea a Trieste sono state quelle di Melara e di Valmaura. La squadra è composta dai tre enti, più due ragazzi del servizio civile, più un Operatore Socio-sanitario impiegato sul territorio.
Ci sono altri progetti portati avanti da altre associazioni ma in stretta correlazione con Microarea. In questo caso l’obiettivo del progetto è stato l’aiuto agli anziani. Per permettergli di rimanere soli a casa senza l’impiego di strutture socio-assistenziali. Microarea, ci spiegano Ofelia e Alfio, stabilisce i propri progetti in base ai dati che arrivano dall’azienda sul numero, il tipo e l’età della popolazione e sulle patologie, sempre con un riguardo alla privacy. Uno dei criteri di rilevazione è stato il porta a porta, che ha permesso di recepire i bisogni e le difficoltà. A partire dal primo all’ultimo portone, gli operatori si sono presentati spiegando il progetto e il proprio lavoro, perché, con quali obiettivi, e cercando di instaurare relazioni e capire i bisogni delle persone. “Microarea non è uno sportello, è un servizio proattivo nei confronti della popolazione. È l’istituzione che va incontro all’utenza”. Rispetto alle problematiche incontrate, la situazione è molto composita. Gli operatori si sono trovati in situazioni estreme e di fronte a bisogni diversi e reali. Molte persone non sapevano di avere diritto a certi servizi: dalla fisioterapia al medico di medicina generale, e per questo non li richiedevano. In alcuni casi sono stati chiusi degli appartamenti in cui la situazione igienica non era sostenibile, e nessuno se n’era reso conto fino a quel momento. Nelle periferie (ma anche in centro) gli operatori raccontano di aver trovato anziani morti soli in casa dopo settimane. “Non c’era nessun tipo di relazione sociale”. Grazie a Microarea questo non è più successo, perché l’attivazione ha creato un rapporto diretto e quasi giornaliero con la popolazione.
Tra gli obiettivi del progetto c’è la conoscenza delle persone e il fare comunità, e tra gli effetti positivi c’è stata la diminuzione di interventi straordinari di 118 e 113. Microarea è un luogo anche informale in cui fare socialità. Molte persone che versano in condizioni di indigenza si recano nelle sedi di Microarea per il pranzo. Alcune delle sedi sono infatti “informali”, non essendo né ambulatori né uffici: sono un mix, sembrano normali appartamenti dove solo il via vai è un po’ più movimentato che in una casa privata. Ci sono poi i determinanti di salute: le situazioni più degradate sono quelle che creano bisogno di assistenze, sanità, cure.
Per affrontarle il settore del sociale e quello sanitario devono andare insieme, non si possono scindere. “È una nostra lotta quotidiana spingere il sanitario a lavorare nel sociale. Se tu elevi i bisogni dei più poveri elevi la qualità della vita di tutti” raccontano gli operatori del progetto. Ma come nasce Microarea? Siamo nel 1997/98, un paio d’anni dopo la costruzione dei Distretti sanitari (in risposta ai bisogni di salute extra ospedalieri). L’unico luogo di cura primaria è l’ospedale: non ci sono servizi territoriali e solo una decina di operatori lavorano per i domiciliari. “Si comincia a immaginare il distretto: il direttore generale Federico Montesanti e Franco Rotelli, che all’epoca era a capo della Divisione cura e riabilitazione territoriale, comprendono che al di là dell’aspetto prettamente sanitario serve qualcosa in più: bisogna lavorare sulla sfera dei bisogni”.
La salute mentale è il modello: i Csm, la residenzialità, tutte strutture che si fanno carico dei bisogni delle persone, della qualità globale della vita. Nasce il primo progetto Habitat Microaree. I tre enti cominciano a lavorare sulla modifica delle pratiche. Le sedi Habitat Microaree vengono garantite dall’Ater, le risorse arrivano in parte da fondi Ater e in parte dal Comune, a seguire le attività si impegnano gli operatori ed educatori delle cooperative e l’Asl con i propri professionisti. Ma la risposta è ancora insufficiente: un luogo fisso con prestazioni sanitarie.
Pensando a come rinnovare il progetto, Rotelli propone nel 2005 di individuare piccole zone da vedere come laboratorio di buone pratiche per comprendere e sperimentare le necessità dei contesti, conoscere le persone e il territorio. I primi obiettivi sono molto ambiziosi: ridurre il tasso di ospedalizzazione rispetto al resto del territorio, migliorare l’appropriatezza del consumo di farmaci ma anche intervenire sulla questione povertà, sull’accessibilità ai servizi, ai diritti, alla casa, creare un reddito minimo. In contemporanea viene lanciato un progetto regionale in cui ognuno poteva inserire una proposta, per costruire una sensibilità più ampia e una partecipazione più forte. Nel frattempo si sono anche risolti alcuni paradossi. L’Ater, ad esempio, aveva cittadini morosi per i quali metteva in moto percorsi di sfratto (molto costosi) e le persone sfrattate dovevano poi essere sostenute dal Comune con costi ulteriori. È un cane che si morde la coda: la spesa per un altro ente pubblico che si occupi degli sfrattati ricade sulla tassazione collettiva del fondo regionale.
Il progetto Microaree ha permesso di ragionare su come superare queste contraddizioni. È stato un cambiamento culturale radicale rispetto alle pratiche precedenti, che ha messo in discussione sia le gerarchie tra istituzioni e cittadini che quelle dentro le istituzioni.