Il 21 agosto scorso una donna ucraina, residente a Piacenza, è stata vittima di stupro, l’ennesimo caso di stupro. La notizia, sebbene drammatica, scorre velocemente sotto gli occhi di lettori frettolosi ormai abituati, loro malgrado, alla violenza e al sensazionalismo mediatico che essa inevitabilmente genera. Ormai siamo abituati ai titoli clickbait di giornali che vengono letti sempre meno, il problema è quando per attirare l’attenzione del “consumatore di notizie” il contenuto stesso dell’articolo diventa effettistico: lo scopo non è più dare la notizia, ma impressionare, senza tener conto delle implicazioni morali e sociali che quel becero sensazionalismo provoca. Il caso di Piacenza è divenuto tristemente noto non per la notizia in sé, ma per come è stata diffusa e poi strumentalizzata. Qualche ora dopo la vicenda, una delle testate più importanti del paese, “Il Messaggero”, ha condiviso sul suo sito il video dello stupro della donna ucraina (quanto meno oscurando il volto della vittima e del carnefice), poi ripostato dalla neo-premier Giorgia Meloni. Ovviamente la leader di Fratelli d’Italia è stata attaccata non solo dall’opposizione, ma da qualunque individuo avesse un briciolo di intelligenza emotiva e sensibilità. Meloni, come suo solito, si è difesa attaccando, affermando di “vergognarsi per quei leader politici che usano uno stupro per attaccare lei”, senza essersi minimamente resa conto di aver violentato, anche se solo virtualmente, una seconda volta la vittima.
Quello che sfugge a molti, o forse molto spesso fa comodo dimenticarsene, è che i social sono la rappresentazione virtuale del mondo reale. Un pensiero espresso su Facebook è comunque un pensiero, non è qualcosa di astratto, le uniche differenze riguardano esclusivamente il modo di comunicarlo e l’idea che quel pensiero non provochi conseguenze. Dunque, la violenza rimane violenza seppur espressa attraverso un filtro virtuale e spesso può portare a ripercussioni ancora più tragiche. Con questo non stiamo asserendo che la neo-premier sia allo stesso livello di colui che ha violentato la donna ucraina, ma l’atto in sé nasconde la stessa violenza. Non solo la vittima ha subìto un abuso con evidenti ripercussioni fisiche e psicologiche, ma la sua mortificazione e la sua disperazione sono state diffuse al mondo intero. Se i social rappresentano un mondo simulato, all’apparenza astratto, le conseguenze di quel mondo sono anche fin troppo reali. Basta pensare ad Alessandro, il tredicenne di Gragnano che per aver rifiutato la sua ex ragazza, ha dovuto subire le minacce e le vessazioni virtuali di alcuni coetanei che lo hanno spinto a porre fine alla sua giovane vita lanciandosi dal balcone di casa sua.
Lo stesso discorso riguarda un caso ben più noto, quello di Tiziana Cantone. La trentunenne aveva subìto la diffusione di alcuni video che la ritraevano in momenti d’intimità, diventati in pochissimo tempo virali. Anche in quel caso una violenza virtuale ha portato ad una morte reale: la giovane donna è stata trovata impiccata nella sua abitazione. Dunque, è evidente come la semplice diffusione di un video, possa portare conseguenze tragiche.
Probabilmente il fatto che la comunicazione sia filtrata attraverso un profilo o un avatar rende le persone meno responsabili delle proprie azioni e più libere di dare sfogo ai più bassi e indecorosi istinti umani. Nella vita reale nessuno avrebbe il coraggio di entrare in un negozio e far vedere a tutti delle foto intime della propria ex ragazza, mentre si farebbe meno problemi ad inviarle ad un gruppo Whatsapp. Anche chi è tendenzialmente taciturno, timido e poco incline all’aggressività potrebbe trasformarsi potenzialmente in una bestia assetata di like e questo perché si sente protetto dietro una semplice foto profilo ritraente la sua moto o il suo cane.
I social non sono il male, ma chi vuole fare del male sui social si sente libero di farlo.
I social non sono il male, ma nascondono, non poi così bene, una malattia: quella di iperbolizzare le sensazioni. Se nella vita reale tendenzialmente provo invidia, aprendo qualsiasi tipo di social network verrò bombardato da tutto quello che non posso essere o avere. Risultato? Vomiterò la mia frustrazione sul mio profilo o sotto un post, il cui titolo (perché da utente medio leggerei solo il titolo sensazionalistico, senza aprire l’articolo) mi ha fatto indignare.
In realtà qualsiasi cosa sui social viene iperbolizzata, nel bene e nel male, come per esempio la condivisione. Se parliamo di Revenge porn o di diffusione di materiale privato la condivisione diventa il nemico numero uno di chi subisce il torto, dato che in pochissimo tempo tantissime persone possono vedere ciò che non dovrebbero. Tuttavia l’immediatezza e il gran numero di utenti sono gli alleati più stretti quando c’è la necessità di comunicare una notizia fondamentale o semplicemente per sensibilizzare su certi temi chi solitamente ne è estraneo affinché possa sposarne la causa. Quanti di noi avrebbero saputo, più o meno immediatamente, del massacro dei civili a Buchra in Ucraina, senza i social network? Basta pensare che per avere una visione completa di ciò che avvenne durante il massacro di Srebrenica del 1995 durante le guerre jugoslave, sono stati necessari sette lunghi anni.
Quanti di noi sposerebbero certe battaglie civili se non venissero diffuse così tanto? Tutte le più importanti onlus, da Medici Senza Frontiere ad Amnesty, nel corso degli anni hanno potenziato sia la loro comunicazione virtuale che le loro strategie di diffusione sulle piattaforme virtuali. Se non ci fosse la condivisione online non potremmo mai sapere che in Perù decine di persone sono morte nelle proteste e che anche (certamente in minima parte), grazie a quelle petizioni che il più delle volte eludiamo con facilità, nello Zambia è stata da poco abolita la pena di morte.
Ogni cosa in mano all’essere umano può diventare una risorsa o un’arma e non c’è strumento più polarizzante di Internet.
Bisognerebbe smetterla di considerare il mondo virtuale una realtà a sé stante anziché un organismo perennemente attivo che influenza ed è influenzato dalla realtà concreta. Ciò che viene fatto sui social si riflette in modo amplificato nel mondo reale e questo è un dato di fatto, eppure questa banalità non è ancora chiara a tutti. Capire e assimilare questo semplice meccanismo permetterebbe di evitare casi come quello dello stupro di Piacenza perché, se la disumanizzazione è praticamente incontrollabile nella vita concreta, sui social potrebbe essere esattamente il contrario. Pertanto, se virtuale e reale si influenzano a vicenda, potrebbe essere arrivato il momento di utilizzare la prima per stimolare un cambiamento nella seconda.