Intervista a Maria De Monte, insegnante di Lis
Maria De Monte è una docente esperta della Lingua dei segni italiana presso UNINT, Università degli Studi Internazionali di Roma. Insegna e lavora con la LIS. È inoltre assegnista di ricerca presso l’Università di Udine, già referente per il dipartimento di Ricerca e Progettazione dell’Istituto Statale per Sordi di Roma (ISSR, dal 2014 al 2022), dottore di ricerca in Linguistica, laureata in Comunicazione.
La LIS non fa uso della parola “detta” ma è fatta di gesti. Come questo gesto si trasforma in comunicazione?
Partiamo dalla comunicazione. Quest’ultima è alla base di qualsiasi comportamento sociale umano, al punto da avere la parola latina “communio”, società/comunità, come radice etimologica. Alla base della comunicazione, dunque, vi è la volontà di far partecipe qualcuno di qualcosa, condividere, cosa che sembra essere una facoltà condivisa da tutti gli esseri viventi, animali e vegetali inclusi.
La comunicazione umana, che è quella che qui ci interessa, è fatta a sua volta di diverse modalità, verbali e non verbali. La LIS è una lingua che vive in quest’ultima e il “segno”, non il gesto, sono le sue “parole”.
Ogni segno è composto da una molteplicità di parametri che contemplano l’uso delle mani, ma anche i movimenti del busto, le espressioni del viso, i movimenti dello sguardo, e una gestione sapiente dello spazio che permette al segnante di aggiungere complessità ai contenuti. In quanto lingua, permette di veicolare e cioè di trasmettere qualsiasi concetto. Oltretutto è culturalmente definita, esattamente come qualunque altra lingua parlata o “detta”. La LIS, infatti, è la lingua dei segni Italiana, diversa da quella di altre nazioni del mondo. La LIS non diffonde solo contenuti tradotti dal parlato, ma anche modi di dire, stati d’animo e nozioni care alle persone sorde, che da sempre la custodiscono e la tramandano, in contesti formali o informali.
Che rapporto c’è tra LIS e la comunicazione non verbale?
Sono profondamente legate, si distinguono per le regole che dipendono dalla lingua dei segni e le permettono di essere definita come “lingua”. Se anche la comunicazione non verbale ha le sue regole, queste ultime tendono ad essere generalizzate e prive di una struttura linguistica, propria invece della LIS.
Com’è la relazione tra due o più persone prive di parola detta?
Tra le molteplici forme di “relazione” umana, quella tra persone sorde è, a mio parere, molto profonda. È un legame fatto di esperienze condivise e di strategie comuni per navigare un mondo dove di “detto” c’è troppo o troppo poco.
A tal proposito, con “prive di parola detta” non s’intende incapaci di parlare: in Italia e nella maggior parte dei paesi del mondo, le persone sorde vengono solitamente avviate a un percorso logopedico che permette loro di allenare le corde vocali per produrre suoni che poi diventano parole. A meno di esperienze personali o culturali che impediscano loro di apprendere il parlato, tutti i sordi sono potenzialmente in grado di parlare. La lingua dei segni, tuttavia, è la loro lingua elettiva, quella a cui accedono naturalmente, finalmente anche riconosciuta come un loro diritto linguistico.
Tendenzialmente i sordomuti preferiscono vivere tra loro? È corretto inoltre parlare di sordomuto?
Direi che parlare di sordomuto no, non è corretto. Il termine “sordomuto” è un residuo lessicale di un’epoca di ignoranza diffusa, in cui si riteneva che essere sordi implicasse necessariamente essere anche muti. Da più di cento anni, per effetto dell’obbligo di scolarizzazione e dell’avanzamento tecnologico, non è più così, e i sordi stessi ne hanno dato ampia dimostrazione. Internet è pieno di persone sorde che scelgono di parlare, oltre che di segnare, di se stessi, con la propria voce e le proprie mani. Per un udente quella voce può sembrare “sbagliata” perché può sembrare diversa da quella a cui si è abituati. Tuttavia, tutte le persone con un udito nella norma sono perfettamente equipaggiate a capire una variazione di tono o di volume, senza dover necessariamente generalizzare o farne un dramma. Tra loro i sordi useranno la lingua che preferiranno: la LIS, se c’è, la parola detta, o entrambe… perché no? Sul fatto che preferiscano vivere tra loro, non direi. Esiste piuttosto una forma di naturale vicinanza tra persone che condividono la stessa lingua e la stessa esperienza. Niente di diverso dal comportamento di molti italiani che, all’estero, cercano altri italiani per trovare suggerimenti, guida, conforto e riposo da una situazione a loro poco familiare. Trovo inoltre che sia il caso di superare la dicotomia “noi” e “loro”. La paura di molte persone non segnanti verso la comunicazione con i sordi ha già alimentato la diffusione di pregiudizi infondati che continuano ad alimentare una lentezza nel processo di inclusione che avrebbe invece bisogno di una grandissima spinta. Con la “scusa” di non sapere come comunicare con loro, si tende a non avvicinarsi, non fare neanche il primo passo o, come spesso mi è successo di assistere, di rispondere alle loro domande mentre si afferma di non aver capito cosa hanno detto. C’è molto di insicurezze personali e sociali nel rapporto con i sordi che, tuttavia, non ha tanto a che fare con “loro” quanto con la difficoltà che molte persone udenti e non segnanti hanno con la propria idea di sordità. In breve, non è che “loro” preferiscano vivere tra loro. E’ che “noi” li escludiamo da quello che facciamo quando non consideriamo le loro esigenze specifiche durante la comunicazione. È diverso.
Come si rapporta un sordo con una persona che ha la parola?
Questo dovresti chiederlo a loro, i sordi.