Intervistiamo la dott.ssa Antonella Torchiaro, coordinatore medico dell’ambulatorio popolare Intersos 24. Intersos è un’organizzazione attiva a livello internazionale nei contesti di forte emergenza umanitaria. Opera in Italia con “unità migrazioni Italia” dal 2011, cioè da quando la migrazione in italia ha cominciato ad essere un campo in cui era necessario intervenire anche in maniera umanitaria. Attivi sia sul fronte “salute” sia sul fronte della “protection” per il sostegno e la tutela dei diritti dei minori stranieri non accompagnati, per la migrazione e per il lavoro.
Gli ambiti principali di intervento riguardano questi tre aspetti.
Intersos è attiva particolarmente in Calabria, nel Lazio, a Roma e in Puglia, principalmente sul tema salute: a Foggia è impegnata con un progetto che riguarda contemporaneamente la salute e la tutela del diritto al lavoro e, quindi, i diritti dei lavoratori nelle campagne foggiane.
A Roma è attiva sostanzialmente con un progetto che copre due aspetti principali: quello della salute con un progetto di “ambulatorio popolare” rivolto alla popolazione più fragile residente, sia italiana che straniera. Congiuntamente a questo, Intersos è attiva con un progetto di sostegno, di “protection” vera e propria, per i minori stranieri non accompagnati e per le donne in transito, sole o con bambini, quindi con una fetta speciale di operatività che riguarda la protection di questa categoria particolare di migranti.
Prima ci parlavi di “transitanti”: i migranti possono avere diversi status giuridici. Ci puoi dare un quadro?
Nel nostro immaginario associamo il migrante alla persona che arriva col barcone e a tutte le immagini che vediamo quotidianamente in televisione.
Il migrante a livello storico, antropologico e culturale è colui o colei che si sposta da un paese all’altro, per cui sarebbe utile ricostruire l’immaginario per cui i migranti sono tutti coloro che si spostano per impostare un nuovo progetto di vita.
Quindi sarebbe utile chiedersi: “da cosa è determinata quella modalità di migrazione”?
È la domanda centrale su cui si basa tutto il nostro piano di advocacy come organizzazione umanitaria. Pensando ai diversi status giuridici dei migranti in generale, ad oggi, possiamo dire che esistono sostanzialmente persone che possono arrivare sui nostri territori con permesso di soggiorno o comunque con un visto, quindi con il permesso di entrare in Italia e in Europa, e persone che non hanno la possibilità di ottenere questo visto, e quindi questo permesso.
Tendenzialmente, una persona che viene dall’Australia, può ottenere un visto per venire in Italia per motivi vari come studio, turismo, lavoro, e quindi entrerà in modo legale perché i due paesi permettono questo tipo di comunicazione: arriverà con l’aereo e resterà per il tempo che desidera. Poi, ci sono migranti che non hanno la possibilità di raggiungere in modo legale il nostro paese con dei visti, poiché provengono da altri paesi coi quali non ci sono accordi bilaterali pacifici rispetto alla libertà di movimento del transito, come l’Eritrea, il Mali, la Costa d’Avorio, eccetera. In assenza di tali accordi, i migranti sono costretti a raggiungere territori europei o extraeuropei in modo spesso non legale.
Va ricordato che fino al 2006, con il decreto flussi, c’era un canale di arrivo legalizzato, in cui l’Italia diceva con dei decreti che venivano fatti periodicamente, in cui dichiarava la disponibilità di lavoro in determinati settori (ad esempio: “ho bisogno di 10.000 persone per manodopera lavorativa non qualificata nei seguenti settori”) e stringeva dei patti con diversi paesi che inviavano persone con dei permessi e dei visti per quel determinato lavoro.
Questa modalità non è di libero transito ma è comunque regolare.
Da quando non c’è più questa possibilità, chi vuole raggiungere l’Europa per motivi di lavoro, di studio, o perché scappa dalla guerra o per insicurezza, o anche per semplice volontà di trasferirsi in un paese altro rispetto al suo (che è comunque un diritto umano sacrosanto), se proviene da determinati paesi, purtroppo è costretto ad arrivare fin qui in modalità poco sicure e anche illegali.
Ci troviamo quotidianamente a ragionare in termini di “lo accettiamo o non lo accettiamo, lo accogliamo o non lo accogliamo”, in quest’ottica, i migranti si dividono sostanzialmente in migranti regolari e irregolari. Tendenzialmente ad oggi tutti i migranti che arrivano attraverso i barconi, quindi attraverso il mare, sono formalmente irregolari perché cercano di raggiungere il nostro paese attraverso modalità non legali, ma diventano regolari nel momento stesso in cui mettono piede sul suolo italiano perché ci sono delle norme che tutelano tutta una serie di cose legate a questo; in particolare tutti vengono riconosciuti al momento dello sbarco (in realtà già al momento del salvataggio), foto segnalati, e sono considerati richiedenti asilo fino a prova contraria.
Dalla convenzione di Dublino al diritto del mare sono diverse le normative che sanciscono che una persona debba richiedere asilo nel primo paese nel quale mette piede in Europa.
Questo è uno dei nodi che l’Italia cerca di gestire con gli altri paesi europei, perché questo genera quell’apparente disequilibrio tra la quantità di migranti accolti in Italia e quelli accolti negli altri paesi europei. In realtà, se andiamo a vedere le principali statistiche ufficiali, sebbene la nostra percezione sia che siamo il contenitore di tutti i migranti d’Europa, siamo tra i paesi con la percentuale di accoglienza più bassa, perché i paesi che accolgono la maggior parte dei migranti, paragonandola al numero dei residenti, sono: la Germania, l’Austria, la Svezia, i paesi del nord Europa.
Questo perché, sebbene ci sia una norma che dice che tendenzialmente le persone che sbarcano in Italia dovrebbero restare in Italia, in realtà, i migranti, richiesto l’asilo, concluso il percorso e ottenuto il permesso di soggiorno, vanno poi nei paesi dove c’è possibilità lavorativa: quindi, di fatto, si distribuiscono in modo autonomo in base alla propria aspirazione e alle proprie caratteristiche, ricongiungendosi con i familiari, o andando là dove ci sono delle reti storiche di popolazioni (come ad esempio, gli eritrei in Germania piuttosto che in Olanda). Ci sono persone e popolazioni, ad esempio la popolazione Eritrea, che non aspetta neanche i tempi necessari per la formalizzazione di tutto il percorso e l’ottenimento del permesso di soggiorno, e decide di transitare ossia di arrivare nel paese di destinazione a prescindere dal percorso legale.
Al momento dello sbarco la persona viene comunque riconosciuta e segnalata in Italia, che quindi fa un percorso legale, tuttavia, essendo poi libero un richiedente asilo di muoversi sul territorio nazionale, ossia, a livello normativo, la persona è libera all’ interno del territorio italiano, il migrante si muove e si sposta sul territorio nazionale, passando da Roma, (e qui l’utilità e il significato del nostro centro), e provando ad attraversare i confini per andare nel paese d’origine dove richiedere asilo.
Questa è la categoria del transitante, cioè colui che decide in modo autonomo di arrivare nel paese di destinazione anziché fare tutti i procedimenti legali per raggiungere lo stesso.
Per chi riesce a transitare, come funziona il processo per avere la cittadinanza nel paese in cui arriva?
La prima cosa che fa una persona migrante, mettendoci nell’ottica del migrante, (solitamente viene spontaneo pensare che la persona si nasconda, sapendo di non essere “legale”), è di andare alla autorità competente e manifestare la propria volontà di richiedere asilo in quel paese, perché la volontà è quella di costruire (tendenzialmente per il 90%) e condurre poi una vita normale, quindi avere un lavoro e stabilirsi: e le persone sanno che questo si fa in modo legale. Quindi la prima cosa che fanno i migranti arrivati in Francia è di manifestare la propria volontà di richiedere asilo in quel paese: lì viene attivato tutto un processo di accoglienza, per cui inizia in quel paese tutta la formalizzazione della richiesta d’asilo che dura anni, di solito 2-3. A quel punto: o si tratta di categorie speciali come le donne in stato di gravidanza, donne con figli provenienti da determinate realtà o paesi con particolari fragilità, per cui quella persona, pur risultando che è l’Italia il primo paese europeo nel quale ha messo piede, viene comunque accolta lì.
Diversamente, ci sono altre categorie (come i giovani adulti gambiani, che non sono delle categorie prettamente vulnerabili) di persone che vengono rispedite in Italia: quindi dopo un iter ed un processo di accoglienza e di inclusione, che può durare 2-3 anni, quindi, centro di accoglienza, corso di lingua, sostegno al lavoro, ecc., arriva il verdetto per cui tutto l’iter viene interrotto e la persona viene rispedita nel primo paese di approdo, ossia l’Italia.
Arrivato qui, l’iter dell’accoglienza ricomincia da capo e si viene a creare un grande loop che può durare fino a 6-7 anni nella vita di una persona che blocca totalmente il suo progetto di vita, con tutte le ripercussioni che questo può avere sulla salute sia mentale che fisica di queste persone
Quali sono i pregiudizi, dato che il tema dell’accoglienza, da un anno a questa parte, è iper-inflazionato, che, a partire dalla tua esperienza, ritieni totalmente falsi?
L’idea dell’accoglienza in senso passivizzante. Mi spiego meglio: l’idea che il migrante che arriva in Italia sia una persona passiva senza sogni né aspirazioni, o progettualità. Non è così.
E poi l’idea del migrante che porta le malattie.
Queste due idee sono assolutamente errate, soprattutto per chi lavora con la migrazione.
In particolare sull’idea della presa in carico, dell’accoglienza e del fatto che siamo noi a dover creare dei percorsi.
Ovviamente ci devono essere delle politiche di sostegno all’integrazione, ma il rischio che corriamo, è quello di affannarsi a creare delle situazioni che poi rendono le persone non autonome e che anzi, vanno a creare dei loop per cui le persone continueranno a dipendere dei nostri servizi e non si esprimeranno mai in modo autentico, depauperando le proprie aspirazioni e le proprie energie e appesantendo il nostro welfare di servizi assistenzialistici inadeguati.
Poi c’è la solita retorica di “non sappiamo dove metterli”, “se non abbiamo i fondi per…” o “questi 32€ a persona” che sono stati anche questi aboliti, quando invece le persone di fatto, al di là delle fragilità derivanti da situazioni particolarmente violente, per cui c’è bisogno di uno spazio adeguato di cura, spesso c’è bisogno più che altro di strumenti di empowerment, cioè di strumenti che possano permettere loro di realizzare quelle aspirazioni vitali che portano con sé e che dovremmo essere in grado di proteggere, sostenere e promuovere.
La maggior parte dei migranti che ho incontrato, di fatto, soffre perlopiù del cosiddetto” male dell’approdo”. Parlando delle malattie che maggiormente ho riscontrato nei migranti, non si tratta quasi mai, anzi mai, di patologie esotiche, tantomeno patologie che potrebbero comportare un rischio epidemiologico per la popolazione locale; si tratta perlopiù del cosiddetto” male dell’approdo”.
Ci sono, sul tema salute e migrazione, due grandi miti da smontare: uno è la cosiddetta ‘sindrome di Salgari’, quindi l’idea che lavorare con i migranti significa nell’immaginario vedere quelle cose che non vedrai mai a livello infettivo e dermatologico. Un mito da smontare è “parte chi ce la fa e arriva chi ce la fa, quindi tendenzialmente, si tratta di una popolazione sana e quella che si mette in viaggio lo è”.
Poi ci sono però dei determinanti di salute che vanno ad incidere sul percorso migratorio e purtroppo la condizione di immigrazione che si è creata oggi, sostenuta dall’illegalità, e quindi dall’impossibilità di accedere e di usufruire di politiche migratorie facilitanti l’accesso, porta le persone ad entrare in circuiti di sfruttamento lavorativo, o di sfruttamento anche proprio della persona (e si parla di sfruttamento sessuale, sfruttamento dei minori) che poi li portano ad arrivare in determinati paesi quasi forzatamente.
Si parte da determinati paesi con la volontà, magari, di arrivare nel paese limitrofo, perché la maggior parte delle migrazioni, dell’Africa per esempio, sono all’interno dell’Africa. I paesi che maggiormente ospitano migranti nel mondo sono paesi interni al continente africano.
Tuttavia, si entra poi in un vero e proprio traffico di esseri umani, che volendo fare un’analisi ampia, in ultima analisi è sostenuto dalla mancanza di politiche migratorie non repressive e accessibili; per cui di fatto si crea un imbuto al livello della Libia, che è un paese altamente instabile, a livello politico, ormai da anni.
La Libia gestisce quindi il traffico delle persone, sia di chi era partito dal proprio paese con l’idea di arrivare in Italia, sia di chi aveva effettuato una migrazione interna al continente stesso e qui si creano condizioni di violenza grave, e le persone vengono rinchiuse dai trafficanti di esseri umani all’interno di veri e propri centri di detenzione, venendo arrestate per varie ragioni: la più comune è data proprio dallo status di migrante per chi è arrivato in modo irregolare, in un paese che comunque, in realtà, non ha norme, per cui anche l’arresto diviene totalmente improprio dal punto di vista del diritto internazionale. In Libia, vi sono questi centri che sono delle vere e proprie carceri, o dei centri che l’Italia stessa insieme all’Europa hanno contribuito a creare, che sono dei centri di presunta identificazione, in cui la Libia dovrebbe garantire l’identificazione delle persone ed effettuare eventuali rimpatri. Tuttavia questi centri sono spesso abbandonati alla gestione libica, che appunto è instabile, per cui avvengono tutta una serie di eventi violenti all’interno dei centri.
Senza dimenticare che questi centri spesso sono spazi piccoli e sovraffollati, per cui di fatto, le persone si ammalano per le condizioni igienico sanitarie inadeguate.
In Italia, arrivano persone fortemente private sia delle energie, perché comunque affrontano viaggi molto complessi e vivono delle situazioni di violenza grave che sicuramente segna in modo indelebile tutta una serie di aspetti, soprattutto nelle donne, sia di grande depauperamento dello stato fisico proprio di salute: quindi persone denutrite o in condizioni fisiche molto complesse.
Poi c’è tutta la fascia delle patologie legate alla condizione di vita in Italia, per cui spesso i migranti vivono in condizioni di fragilità e di esclusione sociale e hanno le patologie legate alla povertà. Le patologie più comuni sono sostanzialmente di due tipi: i maschi perché si fanno male a lavoro, quindi patologie legate a traumi, e le donne per problemi legati alla salute materno infantile, quindi o per gravidanza o per interruzione di gravidanza.
Infine, spesso, ci possono essere problemi di salute mentale.
Quali sono i problemi di salute mentale più diffusi che incontri durante il tuo lavoro?
Negli ultimi 5 anni c’è stato sicuramente un riscontro maggiore di problematiche di salute inerente alla salute mentale e questo è legato sia alla precarietà della condizione di vita in Italia, quindi il problema di avere una stabilizzazione di vita legato al permesso di soggiorno e il fatto che questo iter da fare sia molto lungo e destabilizzi molto, comportando problematiche legate ad una sintomatologia depressiva, sintomatologia ansiosa, insonnia, ossia tutto quello che può derivare da un forte senso di precarietà esistenziale.
Tuttavia, i disturbi post traumatici da stress sono i più diffusi e sono conseguenti a tutti i traumi vissuti durante il viaggio.
Stando sul decreto sicurezza, qual è la tua/vostra opinione, nel senso, come cambia lo scenario dell’accoglienza dopo il decreto sicurezza di Salvini?
Rispetto al decreto sicurezza, diventato ormai legge 132, come Intersos, abbiamo una posizione condivisa con altre organizzazione umanitarie e condivisa, anche, con la Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, con le quali abbiamo avviato varie campagne di comunicazione in cui abbiamo espresso le nostre preoccupazioni per quanto riguarda gli effetti che l’applicazione della legge avrà sulla salute delle persone.
Perché?
Innanzitutto, perché si tratta di una legge che parla di sicurezza e associa il problema sicurezza alla migrazione. Quindi, riteniamo che sia un immaginario, come dire, distorto della problematica legata alla migrazione. E soprattutto, perché il decreto va ad incidere su determinati punti che sono cruciali, ossia incide sui determinanti sociali di salute, andando ad incidere in modo negativo sulla condizione sociale delle persone che si trovano oggi in Italia.
Con la legge Salvini viene abolita la protezione umanitaria e, di fatto, c’è l’abolizione del sistema SPRAR per come lo conosciamo, ossia la possibilità di accedere a percorsi di accoglienza organizzati in piccoli numeri.
Il sistema SPRAR era, appunto, il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati, che era organizzato in piccole realtà diffuse sul territorio, volto a fornire degli strumenti alle persone per rendersi autonome una volta raggiunto lo status giuridico specifico.
Ora cosa succede?
Non esiste proprio lo SPRAR ed è stata decostruita l’idea di piccole realtà di accoglienza, favorendo invece l’accoglienza nei grandi centri in cui le persone verranno messe tutte insieme: in generale l’idea di grandi numeri è fallimentare per qualunque cosa, figuriamoci per la accoglienza.
Inoltre, le persone con lo status giuridico definito di ‘protezione umanitaria’, uno status che veniva riconosciuto solo in Italia se non erro, comprendeva situazioni non propriamente gravi per le condizioni legate al paese di provenienza ma comunque delle condizioni per cui l’Italia diceva “tu meriti una protezione”. Tale protezione aveva una durata limitata dai 2 a 3 anni, ed era rinnovabile, ossia convertibile in permesso di soggiorno per lavoro: quindi che dava una prospettiva di stabilità. Ad oggi quella protezione non è più possibile ottenerla.
Quindi ha colpito persone che stavano qui in Italia da tempo?
Anche da più anni, sì. La cassazione ha stabilito che non c’è la retroattività, vuol dire, che chi ha la protezione umanitaria oggi, perché l’ha presa prima della legge, può continuare con i percorsi e verosimilmente li concluderà. Questa protezione è stata sostituita da altri sei tipi di permessi di soggiorno estremamente precari ed estremamente difficile da ottenere. Faccio un esempio: il permesso di soggiorno per atti di particolare valore civile, un’idea proprio di eccezionalità che non contempla una persona ‘normale’ che vuole lavorare e avere una famiglia in modo normale.
Poi, c’è il permesso di soggiorno per cure mediche, tuttavia, viene dato in modo alquanto singolare: io ti posso dire che ho una patologia grave e tu mi darai permesso di soggiorno, ma non si sa quando considerare una patologia grave e sarà il questore a dovere valutare se quella patologia è grave e non una equipe sanitaria. Si tratta di permessi che durano per poco tempo, 1 o 2 anni, alcuni non rinnovabili.
Ricapitolando, i principali problemi legati al decreto Salvini riguardano: 1. la precarietà di una situazione regolare, 2. la difficoltà di ottenere uno di questi permessi perché ci sono criteri molto stringenti e la conseguente difficoltà abitativa perché tutte le persone con permesso umanitario ad oggi sono già state cacciate dei centri d’accoglienza e non possono accedere agli SPRAR.
Lo scenario che vediamo davanti a noi sostanzialmente è quello di una quantità di persone che erano già in Italia da prima di questa legge, che si riverseranno in condizioni di precarietà abitativa e saranno prede dello sfruttamento lavorativo e questo non farà che alimentare insicurezza.
Quindi possiamo dire che è una legge che alimenta l’insicurezza e non promuove la sicurezza che dice di promuovere con ripercussioni sulla salute evidenti perché, appunto, la salute è socialmente determinata, per cui, le condizioni di precarietà abitativa si ripercuotono sullo stato di salute individuale e di comunità.
Una curiosità: i migranti che arrivano in Italia, che idea hanno dell’Italia? So che sono tutte persone diverse e ci saranno tante idee quante sono le persone, mi rendo conto che è una domanda superficiale, ma mi chiedevo se anche loro avessero pregiudizi nei nostri confronti.
Noi facciamo dei colloqui individuali, e di gruppo, e quando chiediamo alle persone se vogliono restare in Italia, la risposta che riceviamo è “mai!”: nessuno vuole restare in Italia, nessuno, dagli eritrei ai nigeriani a… Nessuno ha intenzione di restare in Italia, tutti vogliono andar via, perché si percepisce moltissimo l’instabilità politica che abbiamo, nel senso che le persone dicono che “non è un paese che durerà tanto, molto instabile” e spaventa la precarietà lavorativa. Moltissimi dicono, “io sono venuto perché ho voglia di lavorare o comunque, spero di costruirmi una vita stabile e in Italia questo non c’è”.
Di recente è uscito fuori anche il discorso del razzismo e c’è la sensazione di non essere proprio benvoluti o comunque di non sentirsi al sicuro perché si ha la pelle un po più scura.