Quando si decide di fare un film su un fumetto (come quando si decide di farlo prendendo spunto da un libro o da una storia vera) bisogna stare un po’ attenti. Non tanto nella realizzazione (non stiamo parlando di un giudizio estetico), quanto nell’effetto “morale” che esso può provocare nei fan di quei fumetti o libri. Il giudizio (troppo spesso pre-giudizio), al tempo dei social, è sempre dietro l’angolo, e spesso i critici (ma potremmo dire la gente comune) non fanno altro che aspettarti al varco. Soprattutto, poi, se decidi di chiamare un film esattamente come il libro dal quale è tratto, l’attenzione per i particolari e per i dettagli, da parte degli spettatori, si moltiplica diventando quasi maniacale. Tutti coloro che andranno a vedere al cinema “La profezia dell’Armadillo” quasi sicuramente si rileggeranno la graphic di Zerocalcare subito prima o subito dopo essere tornati dalle sale (o forse in entrambe le occasioni). Questo per essere sicuri di ricordarsi bene tutto, e di aver memorizzato al meglio quelle pagine, perché è questo che ci si aspetta di vedere da un film con quel titolo.
Quasi nessuno invece si chiederà il “perché” di una scelta simile, ossia di portare sul grande schermo un’opera già così famosa, esponendosi praticamente al pubblico ludibrio. Quasi nessuno si soffermerà sulle difficoltà che ha dovuto affrontare Simone Liberati (Zero) nell’interpretare uno dei personaggi italiani più amati degli ultimi anni (e magari sarà curioso sapere che lo stesso Zerocalcare disse a Simone: “non ho consigli da darti”, lasciandogli da una parte carta bianca, dall’altra un foglio però troppo bianco, difficile da riempire). Io queste cose me le sono chieste, anche se non so dare una risposta. Però me le sono chieste. Ad ogni modo, l’unica cosa che possiamo fare è analizzare il film rapportandolo al fumetto dal quale è tratto, perché su quel fumetto, oggettivamente, possiamo provare a ragionare. È con questo spirito che mi sono approcciato a questa anteprima. Così facendo ho notato che l’Armadillo, magistralmente (davvero magistralmente) interpretato da Valerio Aprea, non è un cartone animato (come forse qualcuno si sarebbe aspettato), non è un disegno, ma è appunto Valerio Aprea, un uomo con un “mantello corazzato” e con quel naso gigante tipico del disegno di Calcare. Di fatto, se Zero è “vero”, deve esserlo anche l’Armadillo, in quanto coscienza di una persona in carne ed ossa. Quello che mi chiedo è perché l’unico “animale” delle fantasie di Calcare in questo film sia solo Aprea. Dov’è Lady Cocca ad esempio? Dov’è la madre di Calcare? C’è, ma non è Lady Cocca, è Laura Morante, una donna in carne ed ossa senza alcun “costume” addosso (sarà stata una decisione insindacabile del regista, Emanuele Scaringi, perché non ce la vedo proprio la Morante che si tira indietro davanti al costume di Lady Cocca!). Inutile chiedersi se siano rappresentati gli altri “animali”, come il leone con l’alopecia (il coraggio di Zero), il gufetto (che incarna le sue speranze), oppure quell’essere che segna il tempo ricordandogli che ormai è troppo tardi per qualsiasi cosa. Non ci sono, non sono presenti. Mentre invece, per quanto riguarda il Secco, migliore amico ed immancabile spalla di Calcare, non c’è stato alcun problema: è già un “essere umano” nel fumetto, e qui è interpretato da Pietro Castellitto, che vi assicuro non è Pietro Castellitto, è il Secco. È lui, è la sua copia sputata. Camille, la fiamma di Zero, è invece Sofia Staderini, ed è lei che muove tutto il film, perché muovendo la psiche di Calcare, i suoi sentimenti, automaticamente crea il film, gli da senso.
Ed è forse il personaggio di Camille, o meglio, il suo inserimento nella storia, ad essere una delle chiavi per capire il film. Probabilmente è questo uno dei punti in cui il regista si sta giocando tutto. Nel fumetto Camille è si protagonista, ma Calcare esorcizza la sua scomparsa “distraendosi”, facendo finta di occupare la mente come farebbe un ragazzo nato negli anni ’80, ossia vedendo telefilm, comprandosi accessori inutili, discutendo a caso con la gente senza un vero motivo. Nel film invece… non so. Questo esorcizzare, questo “distrarsi”, io non l’ho molto percepito. Per carità, ci sta una scena in cui l’Armadillo gli ricorda di comprare la spada laser dei Jedi, un’altra scena dove Zero e il Secco provano a vedere dei programmi in tv, ed un’altra dove Zero prova a far capire alla madre come fare una ricerca al computer, ma il tutto finisce li: gli “sketch”, che si frappongono tra le angosce del protagonista, quegli “sketch” che credo siano uno dei motivi che ci hanno (e che ci fanno ancora ora) amare il personaggio di Zerocalcare, in questo film sono appena accennati. Nessun cenno neanche all’ossessione dei “rigatoni e mozzarelle”, nessun cenno all’invasione delle formiche. Nessun cenno, come detto prima, agli animali che lo circondano. Perché? Problemi di tempo? Problemi di interpretazione? Problemi di produzione? Problemi di “ed ora come la realizzo un’invasione di formiche”? Anche Rebibbia, il quartiere romano nel quale si muove Zero, è accennato. Quelle case popolari, che hanno formato la mente di Zero (o che comunque devono aver contribuito al suo sviluppo) si vedono solo con una ripresa di “drone” dall’alto. Non ci si riesce ad entrare dentro, il regista ci tiene distanti.
Quello che sto scrivendo potrebbe apparire come una critica quando in realtà non lo è propriamente. Il fenomeno Zerocalcare è ormai nazionale: tutti i lettori di fumetti italiani hanno avuto a che fare con uno dei suoi lavori, è impossibile sfuggirgli (per fortuna direi!). Ma Zerocalcare disegna fumetti, ed il fumetto, in Italia, per quanto la Bao (la casa editrice che lo ha preso sotto la sua protezione) sia così giustamente orgogliosa di averlo “sdoganato”, in realtà rimane comunque un fenomeno di nicchia. In Italia, il fumetto è un fenomeno di nicchia. Il cinema, invece, non lo è (forse lo sta diventando solo perché alcune statistiche ci dicono che in media si va al cinema due o tre volte l’anno, ma di certo non lo è e non lo sarà mai come concetto). Scaringi è un regista, lui fa film, non disegna, e il suo scopo è far arrivare il film a più gente possibile, perché sa che il cinema è un fenomeno di massa molto più del fumetto. E per farlo arrivare a tutti, è indispensabile che le cose siano accennate, che Rebibbia sia accennata, che siano accennate le stesse paranoie di Zerocalcare. La mia idea è che il regista abbia – consciamente o meno – cercato di far apprezzare qualcosa di nicchia al grande pubblico e per farlo sia stato “costretto” ad eliminare quelle parti che rendono il fumetto di Zero proprio quel fattore di nicchia che è: ossia Rebibbia e gli “sketch”, che sono appunto l’essenza del fumetto stesso. Scaringi ha cercato di eliminare il fumetto, dando vita ad una storia “regolare”, nel quale la morte di Camille è sempre presente, mai distratta da situazioni poco “capibili” da un grande pubblico (come invece accade nel libro di Zero). Nel film tutto scorre in modo lineare, senza sbalzi. Potrebbe quasi essere un film “normale”, solo con l’aggiunta di questo Armadillo, ma comunque “normale”, apprezzabile da tutti. E poco importa se qualche fan storcerà il naso. È possibile che un “non fan” possa invece avere la curiosità di approfondire il tutto comprando (magari per la prima volta in vita sua) un fumetto.
Quindi “La profezia dell’Armadillo” non è un film per i fan, è un film per tutti (anche per i fan), e forse quei fan così critici, quei leoni da tastiera, dovrebbero provare a calmarsi un attimo, e ad apprezzare il lavoro di una persona che (come pochissimi in Italia) ha avuto il coraggio di abbracciare un fumetto e di farci un film. Quando uscì il film “Paz” (nel 2002, diretto da Renato De Maria, e ispirato ai lavori di Pazienza) la critica fu positiva a riguardo, perché il film non prendeva a modello un’opera in particolare di Pazienza, ma tutta la sua opera. A mio avviso Scaringi, non facendo tesoro di ciò, ha finito per commettere un errore, l’unico, ma che può costargli caro, ossia quello di aver chiamato questo film “La profezia dell’Armadillo”.
Matteo Roberti