“Quando mamma o papà hanno qualcosa che non va”. Il libro di Stefania Buoni

Stefania Buoni è la fondatrice dell’associazione COMIP Italia, acronimo che sta per Children of mentally ill parents (figli di genitori con un disturbo mentale) e autrice del libro “Quando mamma o papà hanno qualcosa che non va”. Radio 32 l’ha intervistata per saperne di più. Ascoltala o leggi il testo qui sotto.

 

Quello di cui si occupa COMIP è un tema che spesso viene ignorato, vero? 

Sì, più che altro perché può riguardare minori che non hanno voce in capitolo, non hanno la consapevolezza o le parole per parlarne, magari perché i genitori soffrono di una patologia molto stigmatizzata e quindi è molto difficile parlarne liberamente.  

 

Come mai hai deciso di scrivere questo manuale? 

Molto semplicemente ho pensato: “Che cosa avrei voluto sapere io a 15 anni”. Tutto nasce da una esperienza familiare. I miei genitori hanno avuto problemi di salute mentale e in quel periodo abbiamo pagato lo scotto del fatto che non avevamo consapevolezza di nulla, non se ne poteva parlare, era difficile capire anche a chi chiedere aiuto… ci sono voluti anni perché capissi molte cose. Grazie a internet e al confronto con alcuni forum stranieri, ho letto per la prima volta di molte persone adulte che raccontavano il punto di vista del figlio di una persona con disturbi mentali, solo lì ho capito che anche il mio vissuto aveva una sua collocazione, a prescindere anche da quello della persona che stava male. Quindi mi sono immedesimata e ho raccolto tutte le esperienze maturate nel corso di anni come attivista: dal 2010 lavoro sul campo come volontaria e molto ho imparato attraverso il contatto su internet con attivisti in Australia, Canada, Stati Uniti, tutti figli di persone con disturbi mentali che hanno scelto di essere agenti attivi di cambiamento. Da questa esperienza ho trovato lo spunto per fare lo stesso per Italia. Il manuale è per me un desiderio di trasformare ciò che ho vissuto e sentito da altre persone in un oggetto concreto, da divulgare a tutti, facendo in modo che anche una tematica come questa, che magari può far paura o che sembra di nicchia, potesse diventare un elemento di dialogo sereno. Uno degli obiettivi era quello di non colpevolizzare il genitore che sta male, migliorare anche la comunicazione, perché a volte l’incomunicabilità tra genitori e figli è un problema per tutti e non solo nelle situazioni dove c’è fragilità psichica. A volte nascono malintesi, non si comprende quello che accade, e in questi casi avere un linguaggio semplice può essere una chiave per capire cosa accade dentro di sé e anche per assolvere i sensi di colpa che nascono da queste incomprensioni, da questa non conoscenza. E poi anche dare delle indicazioni pratiche, non solamente descrivere i problemi, offrendo un aiuto concreto.  

 

Puoi farci degli esempi concreti su come i figli di persone con disagio mentale possono essere aiutati? 

Ci sono delle realtà già attive sul territorio che magari un adolescente non conosce, sono i consultori famigliari, a volte possono essere un punto di riferimento dove si può trovare un primo supporto, poi ci sono anche altre risorse sul web. La nostra associazione nasce dall’esperienza di un gruppo di auto mutuo aiuto online che ho fondato nel 2011, successivamente ci siamo resi conti che non era sufficiente. In qualche modo, però, il gruppo su internet resta uno strumento che ci consente, senza dispendio economico e senza il problema della distanza, di poter intercettare situazioni di difficoltà in tutta Italia. Ci scrivono persone da tutte le regioni italiane, magari in una situazione di emergenza familiare, e per queste persone, avere un contatto con qualcuno che può capire come si sentono è davvero importante.  

 

Sfogliando la guida, abbiamo trovato tutti i vari aspetti problematici dell’essere figlio. Tra gli altri, uno che ci ha colpito è il “senso di onnipotenza o sindrome del salvatore/della salvatrice”, perché è qualcosa che può creare una vera e propria “gabbia” per chi aiuta. 

Preciso che molte delle caratteristiche individuate nel manuale non sono necessariamente tutte presenti in ogni esperienza. Ci sono figli che hanno delle risorse, dei supporti, dei fattori protettivi che in qualche modo li tutelano. Quel particolare aspetto si può verificare quando tu sei stato abituato a occuparti di tutto, della tua famiglia, già dalla tenera età, e neanche ti rendi conto di avere su di te tutta la responsabilità. Questo è anche uno dei motivi per cui è difficile chiedere aiuto. Sentirsi responsabile di qualsiasi cosa non è un atteggiamento che si assume razionalmente, può quasi diventare un automatismo: perciò è molto importante capire cosa sta succedendo, anche per impedire un burn-out, cioè l’esaurimento delle energie, e il manuale ha proprio questo obiettivo. Il contesto sociale in cui viviamo, non conoscendo questi aspetti, può caricare i figli di responsabilità che non dovrebbero avere per la loro età. Dove non c’è una rete di sostegno, quando magari il genitore che sta male non ha un percorso di cura regolare, è molto difficile trovare il proprio spazio. Aiutare i ragazzi a non prendere tutto il carico sulle loro spalle e responsabilizzare il mondo intorno a non fare in modo che questo accada è molto importante.  

 

Mentre scrivevi il libro ci sono stati momenti difficili? Che tipo di esperienza hai affrontato  e quali stratagemmi hai trovato per non abbatterti? 

Domanda centratissima. Una delle cose che ti fa andare avanti – anche a chi si prende cura di chi si prende cura, gli operatori, gli insegnanti, tutte le figure coinvolte che gestiscono “cose toste” – è trovare un modo, un strategia. Stiamo cercando di portare il libro anche nelle scuole, il lavoro di promozione sul territorio è appena cominciato, lo sforzo maggiore è implementare le attività dell’associazione COMIP, per sensibilizzare, per cercare di “sfondare” un muro che è quello del tabù, dello stigma… a volte le energie si esauriscono, perciò è importante imparare anche a dosarsi. Ci sono momenti di forte frustrazione, ci sono momenti in cui veramente pensi: “Non ce la farò mai”, “ma chi me l’ha fatto fare”. Diciamo che nel mio caso cerco di prendermi quelle pause necessarie per ricaricarmi e non cadere nel rischio di sentire di nuovo il peso del “mondo sulle spalle”, io faccio il mio pezzetto, dosarsi significa essere in grado di fare una lunga corsa. Se mi brucio subito poi non ci arrivo, e questa è una lotta lunga.  

 

Nella tua maratona di sensibilizzazione in giro per l’Italia, quali sono gli stereotipi e pregiudizi che incontri più spesso? 

Negli eventi di sensibilizzazione di solito intervengono persone già abbastanza aperte, quindi per fortuna non c’è questo rischio di pregiudizio. Però, nel muovermi sul territorio con persone non interessate direttamente dal problema, o che non conoscono il contesto di disagio, i pregiudizi sono più grandi. E questo capita anche con le persone che hanno vissuto una situazione analoga. Succede perché magari un disturbo viene riconosciuto in tarda età o solo dopo una serie di ricadute, quindi ci si trova ad affrontare una debilitazione maggiore. Inoltre, dove non ci sono informazioni che aiutano a gestire problemi di salute mentale, c’è più spesso il rischio che la persona non recuperi completamente una buona qualità di vita. Non aiuta il fatto che spesso casi di cronaca nera riportino storie associate a patologie psichiatriche, non accompagnate da un approfondimento o non contestualizzate, mentre le vite dei figli di persone con disturbo psichiatrico non vengono affatto raccontate. La cosa più grave è che queste storie, in qualche modo non aiutano a combattere lo stigma. Altro pregiudizio molto grande è che i figli sono destinati a ereditare automaticamente il disturbo, per genetica oppure perché hanno vissuto in quel tipo di ambiente.  

Come COMIP stiamo cercando di lanciare il messaggio della resilienza e soprattutto vogliamo dire che con la prevenzione e la consapevolezza non è assolutamente detto che ripeta un cammino di sofferenza, né per le persone con disturbo, né per i figli. Il problema è che in qualche modo il cambiamento deve essere portato avanti, sfidando tutto questo. A volte non è semplice, alcuni discorsi possono essere demoralizzanti.   

Cito come esempio positivo un progetto europeo che si chiama CAMILLE, in cui figli e genitori con un disturbo, gestito grazie alla psico-educazione, si raccontano. 

Sono queste le testimonianze che danno speranza e sfatano anche il mito che la persona con un disturbo psichico non possa essere un buon genitore. Il problema arriva quando la malattia prende il sopravvento e non è gestita, tra le mancanze di risorse sul territorio e di prevenzione. Noi vogliamo lavorare in modo dettagliato su queste cose e costruire anche una cultura della salute mentale di tutti noi. Un rischio collegato è quello di parlare dei malati con una retorica, in terza persona, senza pensare che sia qualcosa che ci riguardi: è sbagliato, perché  in realtà stiamo parlando della fragilità umana. Ci sono livelli diversi di fragilità con cui serve fare i conti fin da piccoli, altrimenti non impariamo a gestire i problemi che la vita ci mette davanti. È chiaro che prima o poi ci possono essere dei traumi che portano quelle fragilità ad aggravarsi. Esattamente come si fa per altre patologie, la prevenzione nella salute mentale è importante, anche perché si può morire di disturbi mentali. È un lavoro che va fatto, ma con serenità, e il punto di vista di chi è figlio può essere d’incoraggiamento per chi sta in trincea e magari non sa come uscirne. È complicato perché non si può promettere qualcosa che non si può realizzare nell’immediato, è un lavoro che devi fare con una visione di lungo periodo. In Australia hanno iniziato 20 anni fa e ancora non hanno realizzato completamente il cambiamento, quindi è complesso.  

 

A chi ti sei ispirata nel lavoro che stai facendo? 

Le grandi ispirazioni sono state i figli adulti che in Canada, Australia e Stati Uniti ho incontrato grazie a Facebook nel 2010/2011. In un momento di difficoltà ho contato sul loro aiuto sia perché hanno creato dei gruppi online di supporto, sia perché avevano una esperienza come attivisti. Io non mi volevo fermare al semplice scambio di esperienza del momento, volevo fare in modo che non si ripetesse più quello che era capitato a me. E quindi volevo capire come poter replicare anche in Italia questa esperienza, non volevo più sentire frasi come: “Tanto è così, non si può cambiare”, un pezzettino alla volta, qualche cosina io provo a farla, poi vediamo che succede, senza illusioni… Negli anni ho cercato di trovare le strategie per fare dei piccoli passi che sentivo giusti non solo per me, anche per i miei genitori che non hanno scelto di avere un percorso di difficoltà e quindi anche per loro e anche grazie a loro abbiamo pensato di trasmettere queste esperienze.  

 

Chi si rivolge alla vostra associazione e qual è la fascia d’età? 

Prevalentemente persone tra i 23 e i 35 anni e soprattutto donne. Però abbiamo anche persone più grandi, anche oltre i 50 anni, che fanno ancora i conti oggi con l’essere figlio e con l’essere stati figli minorenni. E anche minorenni, ma sono pochi così piccoli a contattarci. Ci è capitato anche di ricevere messaggi da parte di familiari preoccupati per i nipoti. Ovviamente è molto difficile rispondere a queste richieste di aiuto, però tra il manuale e le attività di sensibilizzazione cerchiamo di attivare le risorse a disposizione sul territorio, per esempio i consultori familiari possono essere un centro molto importante. Oggi ho fatto la prima donazione di COMIP della mia mini-guida al consultorio della Casa della Salute di Ostia, il quartiere dove sono cresciuta. È stato un po’ un punto di congiunzione tra presente e passato: a 17 anni mi trovavo lì e nella ricerca di aiuto ho trovato difficoltà, un aiuto che oggi ho portato regalando il mio libro, dopo 21 anni. È stata un’emozione molto grande. 

 

Come funzionano i gruppi di auto mutuo aiuto online, come si può accedere e qual è la tua esperienza? 

Il gruppo di auto mutuo aiuto online è nato sull’esempio dei gruppi internazionali creati da figli adulti per altri figli. Sono un elemento per dare un primo conforto a chi sta attraversando momenti delicati. Pur avendo delle cose comune con altri familiari, l’essere figli di persone con disturbo, presenta delle differenze rispetto all’essere genitore adulto di un figlio con un disturbo psichiatrico. Essere un figlio minorenne o in un’età in cui stai cercando il tuo posto nel mondo, a confronto con queste difficoltà, ti impedisce di poter proseguire serenamente la tua vita, perché è più difficile smarcarsi dai problemi relativi ai propri genitori. Alcuni temono che sia un luogo in cui ci si piange addosso; in realtà, a me non piace mai questa espressione perché quando sei figlio di un genitore che ha un problema di salute mentale difficilmente hai potuto esprimere liberamente il dolore. Una nostra socia co-fondatrice, Gaia Cusini, ha scritto una tesi proprio sul dolore nascosto. È nascosto perché rispetto ai genitori che hanno già le loro problematiche, non vuoi sovraccaricare la situazione familiare, ti nascondi agli altri perché se il genitore non ha accettato la patologia, non la comunica e tu non hai l’occasione di parlare liberamente. Il gruppo di auto mutuo aiuto è un luogo in cui alcuni, addirittura per la prima volta nella propria vita, possono parlare di questo problema con qualcuno. Tuttavia il gruppo non è adatto a tutti, ci sono persone che amano approcci di tipo più pratico e quindi non si trovano a loro agio nel descrivere emozioni con altri, in questo senso non è la soluzione per tutti. 

 

Il gruppo di auto mutuo aiuto online ha la caratteristica di dover dare delle risposte utilizzando il testo scritto, manca l’espressione e il tono della voce, è una difficoltà? Oppure magari è un gruppo in cui c’è anche la possibilità di mettere degli audio? 

Per adesso abbiamo lavorato esclusivamente tramite testo scritto ed effettivamente è difficile perché non sai chi c’è dall’altra parte e come sta.  Stare in un gruppo non è sempre facile, alcuni possono avere una sofferenza talmente grande e non essere attrezzati per gestirla, ci sono situazioni in cui è necessario anche un supporto psicologico o psichiatrico. Noi siamo volontari, abbiamo esperienze come figli ma non siamo dei professionisti, benché ci siano anche figli che poi sono diventati psicoterapeuti. Però, insomma, se c’è un disagio molto grande il gruppo auto mutuo aiuto non basta, anzi può essere anche controproducente. Quindi ci vuole molta delicatezza ed empatia, caratteristica che devi avere per stare in un gruppo del genere: fare da moderatore vuol dire usare tanta empatia, tanto autocontrollo, tanta pazienza e capire che in quel momento l’altra persona sta in una fase di dolore molto grande, per cui devi avere molta pazienza e allo stesso modo devi sapere impostare dei confini. Capisci come mettere i confini solo dopo aver fatto un percorso di psicoterapia, essere un caregiver di un genitore con un disturbo grave ha i suoi limiti, bisogna porre dei confini, anche se ci sono componenti di manipolazione psicologica e quindi a volte perdi il contatto con i tuoi limiti. Per aiutare, invece, devi avere comunque acquisito una consapevolezza e questo aiuta a sapere come porre dei limiti. Se ti arriva una richiesta d’aiuto, potresti sentirti in colpa perché non rispondi o ti senti in colpa se non riesci a risolvere il problema. A volte arrivano delle richieste dettate da una grande sofferenza, ma non sempre abbiamo gli strumenti per affrontarle. Da quando siamo nati, nel 2011, il gruppo si è allargato a quasi 380 membri, arrivati da tutta Italia. 

 

L’idea poi è anche promuovere iniziative o attività che vadano effettivamente sui territori? Come vi state muovendo? 

La voce dei figli di persone con disturbi mentali non è inclusa nelle decisioni che li riguardano. È un terreno molto delicato e ampio che coinvolge tutti, tutti quanti, le scuole, la rete degli assistenti sociali, i servizi sociali, consultori familiari. Però c’è un gap tra la neuropsichiatria infantile e la psichiatria per adulti, in mezzo ci sono i figli di genitori con disturbi mentali che non hanno sviluppato una patologia, per cui non rientrano nella presa in carico né della neuropsichiatria infantile né della psichiatria per adulti e, pur vivendo un disagio dovuto alla malattia del genitore, spesso non ricevono alcun aiuto. 

 Poi ci sono quelli che finiscono per ammalarsi a propria volta, perché lo stress e i traumi si sono riprodotti, non sono state intercettati in tempo prevenuti. Vorremmo che la voce di queste persone fosse ascoltata. E invece a volte la legge impone regole che non si conciliano con il benessere dell’altro. Non possiamo ad esempio chiudere la porta davanti a un ragazzo o a una ragazza che dicono: “la mia mamma non sta bene, fate qualcosa”, rispondendo con un: “mi dispiace, se lei non viene qui spontaneamente, noi non possiamo fare niente”. In questi casi indirizziamo almeno i figli ad avere un colloquio con qualcuno che possa accogliere il loro vissuto, nonostante tutte le problematiche che noi conosciamo. A volte si può perdere l’umanità nel rispondere a queste richieste di aiuto. Anche gli operatori vivono in trincea. La situazione è molto complessa… però, piano piano, cerchiamo di attivare almeno dei piccoli semi. 

 

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Intervista realizzata da Radio 32