Intervista alla storica dell’arte Marisa Dalai Emiliani che ci racconta la sua esperienza nella Trieste di Franco Basaglia
Nell’ambito del Festival Tracce, la redazione ha intervistato la professoressa Marisa Dalai Emiliani, docente di Storia dell’arte moderna e contemporanea e Museologia presso l’Università “La Sapienza” di Roma, nonché curatrice di Trieste 1973, parte della mostra Parole in cammino.
La storica dell’arte ci ha parlato dell’Art Brut, ovvero «arte selvaggia, bruta, che non nasce nelle accademie di belle arti e non utilizza dei linguaggi e codici espressivi usciti da formazioni specifiche; è una sorta di arte spontanea, istintiva. Per questo veicola l’inconscio e l’irrazionale» spiega la professoressa. Proprio per la sua natura, questo tipo di creatività si è espressa spesso all’interno degli ospedali psichiatrici, a partire da inizio Ottocento. «Per fortuna però in Italia queste istituzioni “chiuse” sono state veramente chiuse, grazie alle lotte di Franco Basaglia» commenta l’intervistata, che ha conosciuto da vicino lo psichiatra della legge 180, raccontandoci com’è nata l’iniziativa Trieste 1973.
È stato l’attore e danzatore Gustavo Giacosa a chiedere a Marisa Dalai Emiliani di proporre un’iniziativa per lo spazio espositivo Art Studio Sic12. «Ho scavato nella mia memoria e nel mio archivio personale» ricorda la studiosa, che prosegue «ho ritrovato qualcosa di veramente prezioso, un gruppo di venti fotografie che erano state scattate dai miei allievi intorno al 1968. Non tenevo più lezioni frontali, ma organizzavo gruppi di studenti che lavoravano su diversi temi che io chiamavo seminari. Ero molto interessata a tutte le forme di espressione non codificate, uno dei seminari lavorava sulle espressioni scaturite all’interno dei contesti di cura del disagio mentale. Ero molto legata al pittore e scultore Ugo Guarino, che Basaglia aveva voluto al suo fianco per gestire i laboratori artistici all’interno dell’ospedale di Trieste. Nel Padiglione Q si facevano delle cose innovative, si dava libero sfogo alla creatività con la massima libertà, anche scrivere sui muri».
Alla domanda su come ci descriverebbe Franco Basaglia la studiosa ha risposto che «è difficile descriverlo; era un uomo molto alto, magro, testa ciondolante e occhi che ti scrutavano, ma che ogni tanto si perdevano nel vuoto, nell’infinito. E aveva una vera passione per la democrazia». A tal proposito la professoressa ci ha raccontato che il rivoluzionario psichiatra «non faceva nulla che non fosse stato prima proposto e discusso con gli assistenti e i collaboratori, ma anche con gli infermieri e soprattutto con i pazienti. Le sue assemblee erano sempre miste e si discuteva tutti insieme qualunque decisione da prendere».
Concentrando l’attenzione sui laboratori artistici innovativi all’interno degli ospedali psichiatrici, Dalai Emiliani racconta la nascita di Marco Cavallo, simbolo di libertà per i ricoverati di allora. «Giuliano Scabia (poeta e drammaturgo, ndr) lavorò a Trieste nel gennaio del 1973 e creò quello che chiamava il “paradiso terrestre”, popolando il padiglione di pupazzi di cartapesta, che rappresentavano l’espressione e i desideri dei ricoverati che li hanno sospesi al soffitto; il risultato era una sorta di foresta di pupazzi. Nell’ospedale c’era un cavallo diventato sempre più vecchio e malandato che trasportava la biancheria. Un giorno la direzione decise di mandarlo al macello, i ricoverati scrissero una lettera chiedendo di non sopprimere l’animale ma di tenerlo nell’ospedale come pensionato. Così quando arrivò Giuliano Scabia, sentendo questa storia pensò di realizzare un grande pupazzo-controfigura di quel cavallo, e venne chiamato Marco Cavallo. Nella pancia aveva dei bigliettini di chi aveva collaborato a realizzarlo, su cui erano scritti i desideri di ognuno. A quel punto, d’accordo con Basaglia, Scabia decise di farne il simbolo della liberazione dall’ospedale. Allora, un bel giorno fu portato fuori, aprendo tutte le porte e buttando giù anche un muro, vista la sua misura ingombrante, sui quattro metri di altezza. Essendo diventato un simbolo, Marco Cavallo veniva richiesto e viaggiava per l’Italia, fino a quando un giorno si è incendiato. È stato quindi ricostruito e ha ripreso a viaggiare».
L’intervistata spiega che lo scopo della coraggiosa riforma basagliana, non condivisa da tutti nella società di allora, oltre alla chiusura definitiva dei manicomi «prevedeva la trasformazione della mentalità sociale rispetto alla malattia, la creazione dei Centri di Salute Mentale e soprattutto che ci fosse un impegno da parte di queste nuove strutture nel reinserire le persone con disagio mentale nella società» predisponendo quelli che oggi sono i gruppi appartamento e le case supportate. Dalai Emiliani si dice dispiaciuta per la situazione critica odierna, che presenta «profonde differenze tra le regioni italiane, poiché mancano le risorse economiche e il personale specializzato».
Infine la professoressa ci ha raccontato un aneddoto legato al mondo della musica colta; «il celebre compositore Gustav Mahler soffriva di forti depressioni e quindi poiché operava nella Vienna di Freud pensò di rivolgersi a lui per farsi aiutare. Dopo un lungo colloquio Freud pronunciò le celebri parole: “Maestro io non voglio curarla dalla sua depressione, perché lei non sarebbe più il grande musicista che è stato finora e che potrà continuare a essere”. Questo episodio fa riflettere molto, anche se si tratta di un caso estremo. Si può capire il timore di Freud di intervenire e in qualche modo di compromettere la creatività di Mahler. C’è un confine sottilissimo fra ciò che chiamiamo arte come espressione di una personalità e ciò che non lo è. Oltre questo confine lo psichiatra non deve intervenire; la creatività deve essere libera, non orientata».