L’itinerante Museo della follia approda a Napoli

Il Museo della follia è un “museo itinerante” che ha cominciato il suo viaggio per lo Stivale nel 2011 alla 54° Biennale di Venezia dove è stato presentato in anteprima mondiale. Dopo Venezia è stata la volta dei Sassi di Matera, poi Mantova, Catania, Salò e ora Napoli dove il museo è approdato lo scorso dicembre e dove si fermerà fino al 27 maggio 2018.

La mostra, o meglio le mostre, curate dal critico d’arte Vittorio Sgarbi, hanno avuto tutte sedi privilegiate, infatti non solo i comuni ospitanti sono dei patrimoni artistici senza eguali ma, a far da cornice ad ogni esposizione, sono stati scelti dei veri e propri gioiellini architettonici. A Napoli la scelta è caduta sulla meravigliosa Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta, rimasta chiusa per decenni. 

Prima di addentrarci nello spazio espositivo profondamente suggestivo e suggestionante, ci troviamo di fronte a un invito la cui scritta recita: “Entrate, ma non cercate un percorso. L’unica via è lo smarrimento”. Ricorda un po’ il dantesco “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate” magari sostituendo la parola “speranza” con “logica”, “coerenza” ma anche “stigma” o “pregiudizio”. Allora non resta che abbandonare tutto questo e perdersi nel labirinto delle emozioni privo di una qualsivoglia cronologia.

La prima caratteristica che balza letteralmente all’occhio è l’oscurità. I corridoi sono bui e con pareti nere, in modo da far risaltare le singole opere fievolmente illuminate, appena quanto basta per apprezzarne la bellezza, l’originalità e spesso la stravaganza. Ma anche, e qui è evidente l’altra faccia del museo, per disorientare il visitatore facendolo identificare, in modo spesso ansiogeno e perturbante, in questo sentiero all’insegna della conoscenza e dell’esperienza dell’Altro.

Perché la bellezza, l’arte e l’ingegno non cozzano affatto con la follia e in senso lato con le tante sfaccettature con cui vengono negativamente etichettati i “diversi” da parte dei cosiddetti “normali”. E sembra essere proprio questo il concept, il filo rosso del Museo della follia, il cui sottotitolo dell’esposizione partenopea recita “da Goya a Maradona”.

Si trovano infatti opere di artisti come Goya e Alessandro Papetti, autori di tele altamente disturbanti, dominate da tonalità scure e presenze fantasmatiche; insieme a quelle di Antonio Ligabue (soprattutto le “giungle”) che, con le sue pennellate pesanti unite ad un abbondante utilizzo del colore realizza il singolare effetto di goffratura; arrivando fino alle lastre del piede di Maradona, considerato e idolatrato come un vero e proprio santo da molti tifosi. 

C’è poi l’esperienza unica e pervasiva delle installazioni audio-video il cui àcusma, il “suono-fantasma”, raggiunge l’attenzione del visitatore ancor prima che questo possa individuarne la fonte e capire di cosa si tratti. E ancora i volti inquietanti tratteggiati da Francis Bacon e le solitudini raffigurate da Pietro Ghizzardi, alcune sculture e anche tanto dolore nelle fotografie degli ex manicomi e nella “Stanza dei ricordi” con immagini, documenti, lettere ed oggetti personali degli internati, video sugli Opg e strumenti di costrizione come l’apribocca per far ingurgitare la terapia farmacologica. Superando la lunga parte centrale, di certo la più sconvolgente e dolorosa, si arriva infine all’ultimo tratto del percorso che presenta, tra le altre cose, delle opere alquanto estrose e surreali. 

Sono rimasta particolarmente colpita e reputo degna di nota la recente opera di Enrico Robusti dal titolo “In questo bar non si fa credito” (2017). Si tratta di un enorme e vivace affresco lungo oltre 10 metri, una stravagante critica sociologica che vuole l’interazione del visitatore: c’è infatti, verso la parte centrale dell’opera, un personaggio di cui è possibile ascoltare il lungo monologo riportato nella videoguida. Questo personaggio è a bordo di una “nave di folli” che sta fluttuando in mezzo al mare, è una creatura verdognola, un “diverso” che sa di essere tale ma si crede più furbo degli altri. Tuttavia è un piccolo esserino spaventato e indifeso che non riesce a vedere il mare, sente solo il rumore delle onde ma sa che là fuori il mare c’è, lo ripete ossessivamente nella sua mente, solo lì dentro di sé, e noi lo ascoltiamo. Ricorda un po’ il Norman Bates nel finale di Psycho. Il piccolo mostriciattolo infatti non apre bocca né muove un muscolo, si annulla totalmente, secondo lui fingere e non fare assolutamente nulla è l’unico modo per passare inosservato. In questo modo, a differenza di tutti gli altri che egli stesso critica, il mostriciattolo è sicuro di dimostrare la sua “normalità” privandosi di “esistere”, così forse un giorno quel mare potrà anche vederlo.

Il Museo della follia, nel dar voce a tanti artisti di cui gran parte meno noti ai più, è una sorta di manifesto le cui parole d’ordine gridano: identità, diversità, espressione del sé, ma soprattutto libertà… di manifestare e manifestarsi. 

Martina Cancellieri

INFO:

Dove: Napoli, Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta. 

Quando: fino al 27 maggio 2018, da lunedì al venerdì h. 10-20; sabato e domenica 10-21. 

Ultimo ingresso consentito fino a un’ora prima della chiusura. 

Prezzo: 12€ biglietto intero con videoguida inclusa, disponibili vari tipi di riduzioni. 

Sito: http://www.museodellafollia.it/ 

Fotoreportage

Foto: Martina Cancellieri

Le foto del Museo della follia sono state realizzate con l’autorizzazione di Contemplazioni s.r.l.