Così la pandemia ha messo alla prova la nostra psiche e il nostro sistema sanitario
Dire che il Covid-19 ha cambiato l’assetto della nostra società non è un’affermazione troppo ardita. Le nostre abitudini quotidiane non sono più le stesse a partire dall’igiene, al modo di relazionarci con le altre persone fino all’utilizzo che si fa dei social. Il Covid-19 lascerà un segno in questo millennio su molti fronti, non solo sulla società, sull’economia e sulle istituzioni, ma anche sulla sanità e la salute mentale.
L’intenzione di intervenire in questi ambiti l’ha confermata anche il Governo, che con il Decreto Rilancio ha stanziato oltre 3 miliardi di euro per rafforzare il servizio sanitario italiano. Inoltre, nella task force di esperti che ha consigliato la politica nella fase della ripartenza, il Governo ha voluto dare importanza al tema includendo Fabrizio Starace, psichiatra e direttore del Dipartimento di Salute mentale e dipendenze patologiche dell’Ausl di Modena, presidente della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica (Siep).
In un’intervista al Sole 24 ore, Starace ha spiegato che gli effetti negativi del Covid-19 hanno avuto ripercussioni sullo sviluppo neuro-cognitivo, motorio e relazionale delle persone. Non solo, lo psichiatra ha anche sottolineato che la ripresa economica deve andare di pari passo a quella esistenziale.
Per quanto riguarda il servizio sanitario, sostiene Starace che questa pandemia può essere un’opportunità per ridefinire obiettivi e modalità assistenziali. Di fronte a un numero di casi totali pari a oltre 230mila da inizio epidemia, è ora per l’organizzazione del servizio sanitario nazionale di affrontare un check-up. I modelli di gestione della salute mentale che prevedono strutture residenziali di non più di 20 persone sono uno spunto interessante a cui guardare, ha suggerito nell’intervista Starace. Il vantaggio, in questi casi, è evitare di concentrare troppe fragilità in uno stesso luogo come invece accade nelle strutture residenziali le quali d’ora in avanti saranno messe in allerta. Sarebbe auspicabile perciò aprire ospedali di comunità a bassa intensità assistenziale e favorire la domiciliarità e la mutua assistenza, riducendo così il numero dei pazienti: questo è l’unico modo affinché si argini il contagio.
Anche Antonello D’Elia, psichiatra e presidente di Psichiatria democratica, ha recentemente rimarcato l’importanza della sanità territoriale per superare questa fase di emergenza legata al Coronavirus. In un’intervista a Radio Fuori Onda, ha evidenziato l’utilità di andare verso una specificità dei servizi, un modo per focalizzarsi in maniera mirata sui problemi dei singoli. A questo proposito Psichiatria Democratica ha redatto e inviato una lettera al Tavolo di lavoro tecnico sulla salute mentale del ministero della Salute. Nel documento è stato segnalato l’urgente esigenza di recuperare una dimensione territoriale non solo in maniera immediata ma anche per il futuro. Una delle proposte concrete è stata quella di rendere il servizio più efficiente grazie all’uso della tecnologia, che per esempio ci permette di rimanere in contatto virtualmente. L’altra proposta è stata quella di mantenere aperti i centri diurni e non permettere che questa circostanza di emergenza privi della possibilità di recarsi in un luogo sicuro alle persone che ne hanno bisogno.
Antonello D’Elia, oltre ad esprimersi circa i servizi sanitari in ambito territoriale, ha anche esposto il suo punto di vista sulle difficoltà psicologiche e le conseguenze del lock-down.
Questa pandemia, ha spiegato a Radio Fuori Onda, ha avuto degli effetti su ogni persona diventando una “crisi collettiva” e non individuale. Secondo D’Elia, questa situazione ha fatto emergere la fragilità mentale delle persone, anche di quelle “dichiarate sane”. Ora che la paura della contaminazione è una minaccia ossessiva, il disagio può divenire sintomatico, ha affermato D’Elia, riportando come esempio di sintomo l’insonnia. Infine, nell’intervista lo psichiatra ha parlato di come sono state influenzate le relazioni interpersonali, vissute nella paura e a una distanza prestabilita. Rimane l’interrogativo se questa situazione lascerà delle conseguenze anche nel futuro.
In conclusione, promuovere attività assistenziali domiciliari per i pazienti con sintomatologia clinica sospetta per Coronavirus è una delle soluzioni più efficaci. Tuttavia, è vero anche che questo modello comporta dei rischi che molti medici in prima persona non vogliono correre. C’è chi pensa che mantenere dei pazienti positivi al Covid-19 in strutture ospedaliere garantisca maggiore sicurezza. Anche questi sono timori che vanno a influenzare i disturbi psichiatrici della gente.
L’arrivo del Covid-19 ha messo alla prova il nostro sistema sanitario e anche l’equilibrio psichico di ciascuno.