A tornarci oggi in via Cupa, nel luogo che per mesi è stato laboratorio virtuoso di accoglienza, si trovano le porte chiuse. Le ha chiuse il Comune, su ordine del prefetto Francesco Paolo Tronca, applicando una sentenza del Tar del Lazio che stabilisce la restituzione dello stabile occupato dal centro Baobab alla proprietà, la società immobiliare Tamarri. L’edificio ha una lunga storia alle spalle, con diverse gestioni coinvolte, ma solo dalla scorsa primavera è al centro del flusso di migranti arrivati a Roma – dagli episodi di sgombero condotti a Ponte Mammolo e Tiburtina – mobilitando la solidarietà e l’umanità della cittadinanza romana.“Il prefetto ha sostanzialmente detto che la situazione è di illegalità, che la solidarietà è apprezzata ma che ce ne dobbiamo andare, perché bisogna ripristinare la legalità e restituire lo stabile” ci ha spiegato Roberto, un volontario del centro. L’illegalità cui si fa riferimento è una condizione che esiste dall’ottobre 2014, perché prima l’edificio era stato assegnato tramite bando all’associazione che ne gestiva le attività e il Comune pagava l’affitto. “Quello che non capiamo è perché ci sia stata questa accelerazione improvvisa”. La sentenza stabilisce infatti che la restituzione avvenga entro il 30 aprile: ammettendo anche la necessità di tempi tecnici per rimettere in sesto la struttura, resta difficile spiegare la fretta con cui l’operazione è stata aperta e conclusa, tutto in pochissimi giorni. Tanto che, nonostante l’impegno preso dalle istituzioni sia quello di individuare a breve un altro edificio per accogliere quanti continueranno ad arrivare, non c’è stato verso di rimandare lo sgombero.
Tutto è successo la mattina del 6 dicembre, alla vigilia del Giubileo, in un momento molto delicato per la sicurezza della città. Non era una mattina di festa al Baobab, ma l’attesa dei sigilli è stata accompagnata da musica e colori, mentre veniva offerta una colazione calda a tutti i presenti. Tra volontari, ospiti, cittadinanza a vario titolo interessata a portare il proprio supporto, una parte del “circo mediatico” sul posto si è esibito in uno spettacolo a tratti grottesco, inseguendo paura, emozioni e invadendo la scena. La commozione dei volontari ha trovato spazio solo quando è arrivato il momento dei saluti con gli ospiti, e una pioggia di scatti fotografici ha fatto irruzione tra gli abbracci.
Non c’è stato l’intervento delle forze armate, perché nella trattativa svolta nei giorni precedenti tra i volontari e il prefetto si era deciso di abbandonare lo stabile autonomamente. A condizione però che tutte le persone ospitate fossero prese in carico da altri centri. Così la maggior parte dei migranti che il giorno dello sgombero erano ospiti del Baobab sono stati ricollocati in diverse strutture, come quella gestita dalla Croce Rossa a via del Frantoio o il centro di Via Assisi. Alcuni però si sono allontanati senza seguire gli operatori del dipartimento delle Politiche Sociali, nessun volontario del Baobab è riuscito a convincerli. Sono quei migranti “transitanti”, quelli cioè che non vogliono restare in Italia, ma solo fare tappa durante il loro viaggio verso altri paesi. Transitanti come migliaia delle 35 mila persone che il centro ha ospitato negli ultimi sette mesi, offrendo loro molto più di un letto, un pasto caldo e vestiti. Sorrisi, giochi, un kit di primo soccorso per proseguire il viaggio, la possibilità di svolgere attività in giro per Roma durante la permanenza. Offrendo loro accoglienza, verrebbe da dire, se si potesse intendere senza fraintendimenti quella predisposizione a mettere in gioco la propria umanità per far sentire a proprio agio gli altri.
E anche se nella fretta voluta dalle istituzioni una soluzione migliore non si poteva trovare, forse è utile fare presente che i centri dove i migranti sono stati condotti non hanno nulla a che vedere con l’accoglienza praticata al Baobab. In primo luogo per i costi che comportano per le casse comunali, mentre il lavoro del Baobab è stato sostenuto solo dalla generosità della cittadinanza, tra volontari e donazioni che continuavano ad arrivare anche il giorno dello sgombero. Poi per il modello di accoglienza praticata. “Molti di questi centri chiudono le porte alle 9 del mattino e riaprono la sera, lasciando per strada le persone senza offrire loro neppure da mangiare” ha sottolineato una volontaria. Per questo molte persone spostate dal Baobab nei giorni precedenti allo sgombero sono poi tornate a passare la giornata in via Cupa. Per magiare, stare al caldo, tornare a casa.
Ora si aspetta di vedere cosa accadrà il 15 dicembre, all’apertura del tavolo concordato con il prefetto per individuare al più presto un edificio che funzioni da alternativa al Baobab, vicino a una delle due stazioni ferroviarie in città, la cui gestione non si sa ancora a chi sarà affidata. Nel frattempo i volontari sono rimasti a presidiare via Cupa, che ormai grazie al passaparola è la meta di molti migranti che approdano a Roma. Sono li con un camper donato loro dall’associazione Medu – Medici per i diritti umani, per offrire informazioni e indirizzare nelle strutture pubbliche chi continuerà ad arrivare in cerca di un appoggio. Ma non sarà semplice individuare un posto dove smistare le persone in arrivo, sia perché molte strutture sono già abbastanza piene sia perché in molti, tra quelli che arrivano senza documenti, non vogliono restare vincolati all’Italia. Non vogliono quindi essere identificati qui come richiedenti asilo, perché per effetto del regolamento di Dublino sarebbero poi costretti a restare.
“Abbiamo messo una toppa in questi sette mesi sperando che dietro ci fosse qualcuno che stesse lavorando a una soluzione, invece così non è” ha continuato Roberto. Forse il grande contributo che il Baobab ha dato alla città nella gestione del flusso di migranti lo si percepirà solo ora che un’alternativa non c’è. Il modello di accoglienza praticato ha dimostrato molte cose: non solo la capacità delle persone di prendersi cura di altre persone o la forza dell’auto organizzazione, ma anche la possibilità di gestire un’emergenza senza sperperare soldi pubblici. Offrendo una concreta alternativa ad un modello di business che lucra sui bisogni delle persone. E che Roma conosce bene.
Foto: Marco Minna