Una figura sempre più orientata alla comunità e alla dimensione sociale. Intervista all’architetto Alice Buzzone
Abbiamo intervistato l’architetto Alice Buzzone sul ruolo del suo lavoro nella società odierna. Ne è emerso che, oltre a essere un professionista a cui ci possiamo rivolgere da privati per ristrutturare le nostre abitazioni, è anche una figura essenziale al fine di risolvere problemi di scala urbana, come il degrado, i luoghi dismessi, tutti quelli che sono gli aspetti della rigenerazione urbana, e anche i percorsi nella città. Si è parlato inoltre del rapporto tra casa e identità e di come trovare soluzioni creative al problema di abitare in piccoli spazi.
Com’è fare l’architetto oggi? Come si svolge il tuo lavoro?
Oggi la figura dell’architetto sta diventando molto complessa, nel senso che io continuo a progettare spazi e case, ma è solo una parte del mio lavoro, perché tantissimo, per esempio, riguarda la burocrazia. Ma come me, molti architetti si stanno orientando verso la dimensione sociale, diventando dei veri e propri architetti di comunità. La città oggi è in crisi, ci sono tanti spazi inutilizzati, oppure il degrado. A volte la comunità se ne prende cura attraverso interventi di manutenzione, altre volte c’è bisogno di un intervento tecnico. E con l’occasione di riqualificare lo spazio, si sviluppa un processo anche di apprendimento culturale, di incontro di attori. Ti faccio l’esempio del parco inclusivo a Garbatella che stiamo portando avanti: io non l’ho impostato con un percorso tecnico-estetico, bensì abbiamo coinvolto delle reti che provengono dal campo delle disabilità, senza inquadrarle né come il problema, né come la figura a cui rispondere, ma come “potenziale” per dialogare e discutere insieme quello che per noi è un parco accessibile. Ci siamo posti delle domande che sono andate oltre lo spazio e ci hanno coinvolto come cittadini in un dibattito che è ancora in corso. La società e i valori della comunità coinvolta genereranno quello che sarà lo spazio, e quindi le priorità. La prima cosa era consentire alle persone di raggiungere gli spazi del parco, così abbiamo creato dei percorsi.
La questione è molto complessa, oggi non si parla più di spazi e colori, ma di costruire reti, orchestrare processi e attuare una vera e propria rigenerazione culturale di tutti, compreso l’architetto. La mia è una figura abituata a gestire la complessità, oggi questo si traduce nella nuova dimensione dell’architetto, che è quella di agire nello spazio pubblico, per contribuire alla società e alla costruzione della comunità, non solo di spazi.
Com’è cambiata la casa nel corso del tempo?
Durante la pandemia la questione della casa è stata al centro del dibattito tra gli architetti. La vera chiave sta nel fatto che ritorna il diritto alla casa, all’abitare. Molte famiglie non si possono permettere una casa in cui stare tutti bene, c’è un sovraffollamento delle mura domestiche, un dramma del coabitare serenamente. La risposta è, ancora una volta, fuori dalla casa, nel creare dei luoghi comuni, che possono essere le case del portiere disabitate, i negozi inutilizzati, lo sfruttamento dei terrazzi condominiali, i coworking, gli spazi vuoti inutilizzati, anche pubblici, per permettere la realizzazione del modello di Parigi: “la città in 15 minuti”. La situazione non è creare delle case più grandi, ma andare a utilizzare i luoghi urbani, uscire dalla casa e creare delle realtà comuni, anche per un miglioramento della qualità della vita.
Nell’era post-pandemica non torneremo completamente come prima, rimarranno delle tracce di smart working, per questo è molto utile attrezzarsi in tal senso e creare degli spazi comuni. Credo che la sfida, soprattutto in Italia, sia quella di imparare a coabitare gli spazi comuni, perché qui è molto forte l’istituto della proprietà privata. Quando si pensa alla proprietà privata, personaggi come Salvatore Settis – che ha scritto il testo Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili – ci ricordano che anche quando un privato costruisce una nuova casa, questa fa comunque parte del paesaggio urbano, quindi dobbiamo cominciare a re-imparare a coabitare, e a sfruttare tutto quel patrimonio che abbiamo ed è inutilizzato, come per esempio il condominio.
Oggi non si vende più un prodotto, ma un’esperienza. Cosa ti chiedono i clienti? Quali sono le tendenze del momento?
(Ride) La prima risposta che mi viene in mente è che i clienti chiedono sempre di spendere poco e di avere una casa come la vedono sulle riviste patinate o nei programmi. Il cliente è cambiato, oggi c’è un eccesso di sicurezza del cliente, un’inclinazione a non ascoltarsi e a sostituirsi all’architetto. Per fortuna mi è capitato poche volte e soprattutto nella prima fase, perché l’architetto capisce subito questa inclinazione del cliente, ne capta i “sintomi” e cerca di guidarlo, sempre nel suo bene. Io non impongo mai le mie forme e il mio pensiero sulla casa, di certo mi faccio un’idea, ma ascolto il cliente e cerco di accompagnarlo a immaginare anche degli spazi particolari, è un ascolto reciproco, quando ci sintonizziamo nel dialogo si crea affidamento totale. L’architetto è un po’ il prolungamento tecnico del cliente, è una figura completa che non fa solo le pratiche, ma gestisce tutto il processo, aggirando gli ostacoli e tenendo anche a bada le esigenze di prezzo. C’è tutta una questione di compromessi e di imprevisti tecnici, non c’è la scelta giusta, ma si tratta di un percorso alla fine del quale il cliente sente la casa ancora più sua.
Nella tua esperienza, che rapporto c’è tra casa e identità?
Tempo fa ho fatto la presentazione del libro Le case che siamo di Luca Molinari, potrei traslartelo nelle “città che siamo”, perché credo che noi e lo spazio siamo una cosa sola, non c’è un dentro e un fuori. In qualche modo, l’interiorità condiziona lo spazio esterno e viceversa, è un processo ciclico. Credo che questo sia anche il presupposto di tutte quelle ricerche che ci dicono che vivere in spazi belli, ordinati e puliti ci crei benessere, poiché noi siamo modificati in meglio dallo spazio e siamo portati, di rimando, a prendercene cura. Il negativo è la Teoria delle finestre rotte, la quale spiega che, laddove ci siano degli ambienti degradati, la persona che li abita è portata a lasciarsi andare e a non curarsi. Nella casa, che è la dimensione ancora più intima, questo aspetto si amplifica. C’è un rapporto molto intimo tra noi e la nostra casa, impresso nei dettagli sul “come” la trattiamo o la ignoriamo. Sono cose che ci raccontano come stiamo vivendo la nostra vita e che peso stiamo dando al transitare in uno spazio. Ci sono dettagli, anche meno lampanti, che descrivono come trasformiamo la nostra identità e quanto essa sia correlata allo spazio che abitiamo.
Gli psicologi dicono di “non scambiare la camera da letto per il tinello”, ma cambiare ambiente a seconda delle attività. Come si può risolvere questo problema in spazi ridotti, come in un monolocale?
In quel caso non è lo spazio che deve reagire, ma siamo noi a dover reagire allo spazio che abbiamo. Sta anche a noi rigenerare lo spazio rigettandolo, mettendo le cose in un certo modo, per esempio spostando un mobile, per cui la stanza si trasforma in camera da letto o in ufficio. Attualmente vivo in un monolocale, non ti dico quanti cicli di trasformazione subisce la stanza nell’arco della giornata, rispetto a cosa faccio. Sono sempre io che modifico l’ambiente. Oggi il design, anche quello economico, ci aiuta molto: ci sono una serie di oggetti di tipo modulare, che ci permettono di richiudere il tavolo, di spostare una libreria e farla diventare un divisorio. Non è tanto lo spazio ma l’ingegno, le abitudini e gli atteggiamenti della persona che lo abita a far sì che esso si trasformi.
Cosa pensi riguardo l’interdisciplinarità di molti lavori odierni? Ti è capitato di collaborare con diverse figure professionali?
In tantissimi lavori ormai è necessario parlare tra discipline. Penso che comunicare il processo, oggi, è già fare metà dell’opera, poiché la comunicazione è il primo vettore di partecipazione dei cittadini, ogni esperienza può contribuire ad aprire lo sguardo su che tipo di città vogliamo. Questa è già una partecipazione di tipo culturale, presente anche nei bandi che un architetto oggi fa. Il bando stesso è formulato per avere al suo interno personalità di diverso tipo come sociologi, antropologi, psicologi, ma anche artisti. Dalla progettazione degli spazi ai processi di comunità, l’architetto non è più l’unico attore in gioco ma si affronta la complessità attraverso la collaborazione di diverse figure.
Martina Cancellieri